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 2016  marzo 01 Martedì calendario

Per capire la mafia occorre andare a Trapani, tra logge, misteri e un fiume di denaro

Per scoprire cosa è oggi la mafia non potevamo che tornare a Trapani. Perché Matteo – e sono in molti che lo chiamano con familiarità, solo per nome – è di queste parti e da queste parti lo cercano inutilmente da ventitré anni. Se poi sia vero o soltanto verosimile tutto quello che si è detto e si è scritto su di lui a questo punto ha poca importanza, per la Sicilia criminale più altolocata e per l’imponente apparato poliziesco che gli dà la caccia è diventato un alibi perfetto. La mafia di qui, con o senza Matteo Messina Denaro, fa esattamente quello che faceva trent’anni fa quando per la prima volta siamo venuti a Trapani e ci siamo ritrovati in mezzo a forzieri stracolmi di denaro e a logge massoniche selvagge, prelati malandrini, poliziotti e prefetti mandati in esilio, postazioni clandestine di intelligence, fantasmi di campieri che si aggiravano minacciosamente – ieri come oggi – fra i palazzi del potere di una città che si allunga misteriosamente nel mare.
Dicono anche, e magari sarà un’esagerazione, che Trapani sia il luogo più indecifrabile d’Italia. E una comunità così introdotta nell’arcano quale sindaco avrebbe mai potuto scegliersi, se non un custode dei saperi dell’ignoto, uno che sa maneggiare segreti? Presente: generale di brigata Vito Damiano, ultimo incarico conosciuto capo di un reparto del controspionaggio, i servizi della sicurezza esterna, l’ex Sismi. Ma come è finito qui questo pezzo grosso dell’Arma dei carabinieri in pensione? «Io qui ci sono nato». E da tre anni è ricomparso per governare Trapani, prima «sostenuto dalla politica» e poi «la politica l’ho messa al bando perché non era in linea con gli interessi dei cittadini».
La “politica” a Trapani ha sempre avuto un nome: Antonio Tonino D’Alì, uno dei padri fondatori di Forza Italia, tessera numero uno nella provincia del partito di Berlusconi, senatore della Repubblica ininterrottamente dal 1994, assolto in primo grado dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e in attesa di appello, ex sottosegretario all’Interno (l’uomo giusto al posto giusto!), proprietario terriero, rampollo di una dinastia di banchieri e armatori, padroni di saline e mulini a vento.
Il sindaco-generale, sfuggente come un’anguilla pur nella sua rigidità militare, ci racconta del sogno di un’isola «come la Florida d’Europa» e con le terre trapanesi avamposto di una rivoluzione economico- geografica mediterranea. E la mafia? «Non bisogna parlarne perché si rischia di darle troppa importanza», ha esordito alla prima uscita ufficiale nel maggio 2012, invitato in una scuola per la commemorazione di Capaci. A Trapani tutto sembra immobile e immutabile. Anche il vocabolario.
Le sue piazze e le sue strade non sono state certo scelte a caso nell’84 come set della prima Piovra di Damiano Damiani, con uno straordinario Michele Placido nei panni del commissario Cattani che in solitudine la domenica sera combatteva il male davanti a 15 milioni di telespettatori. A pochi mesi dallo scalpore provocato dalla fiction è andata in scena la mattanza di Pizzolungo, 2 aprile1985, l’esplosivo doveva far saltare in aria il giudice Carlo Palermo ma ha ucciso Barbara Rizzo e i suoi gemellini Giuseppe e Salvatore. Solenne, il giorno dopo, la dichiarazione del sindaco del tempo Erasmo Garuccio: «A Trapani la mafia non esiste». Forattini gli dedicò una memorabile vignetta.
Andiamo allora ad esplorarla questa Sicilia che per nostra fortuna è più bella della Florida e scende verso sud lungo la strada provinciale 21, contrada Spagnola, Mozia con il suo stagnone, Marsala – Marsà Allah, porto di Dio – il bianco accecante delle montagne di sale davanti al mare aspro di Favignana e poi gli ulivi di Castelvetrano. Il paese di Matteo. La Badìa è il quartiere dei Messina Denaro, nel vicolo Alberto Mario di nuclei familiari con quel cognome ce ne sono 19. «Noi siamo i Messina Denaro buoni», fanno sapere quelli delle case in fondo. Parenti serpenti. I cattivi non ci sono più, tutti rinchiusi tranne uno. «Ha i giorni contati», «Il cerchio si stringe», «Gli abbiamo fatto terra bruciata intorno». Negli ultimi quindici anni, non c’è stato ministro dell’Interno che non abbia annunciato l’imminente arre- sto» del figlio prediletto del vecchio boss Ciccio Messina Denaro, quello che assicurava la guardianìa al latifondo del vecchio barone D’Alì.
Prima o poi succederà che lo prendano – è latitante dal giugno ‘93 per la bomba ai Georgofili – ma intanto in Comune a Castelvetrano si accapigliano per un consigliere, tale Lillone Giambalvo, che dice di averlo visto dal vivo in contrada Zangara («Ci siamo baciati e fatti mezz’ora di pianto tutti e due, ma poi mi voleva rubare una volpe di quattro chili che avevo nella bisaccia») e sulle pareti dell’aula magna del liceo classico Pantaleo resistono i cartelloni della penultima stagione letteraria: «Cicerone: quando le armi precedono la politica».
È un viaggio nell’immaginifico l’attraversamento del trapanese dove c’è parte della stampa voce delle consorterie, dove si pentono pure i preti, dove cappucci e grembiulini pretendono di dettare legge. «Non c’è indagine di rilievo che non incontri collegamenti con logge irregolari», racconta il procuratore Marcello Viola. I magistrati sono sorvegliati, li tengono sotto pressione. Incursioni notturne in Tribunale, porte blindate violate, telecamere manomesse. È il passato che non passa mai.
Un quarto di secolo fa c’era la loggia”Scontrino” e lì dentro decidevano il destino di Trapani. C’erano poliziotti scomodi che venivano allontanati, come il capo della Mobile Ninni Cassarà (che poi sarà ucciso a Palermo dai macellai di Totò Riina) o come il capo della Mobile Saverio Montalbano (che poi sarà neutralizzato dalla burocrazia del Viminale) e giudici guardati a vista. Un quarto di secolo dopo le sette si rimescolano con nuovi simboli, minacciano, tramano. La mafia a Trapani è forte perché – assicurano quelli che investigano su queste faccende – può contare su un «capitale istituzionale» che la favorisce.
Trapani, come Palermo, è anche città di cadaveri eccellenti. Il sostituto procuratore Giangiacomo Ciaccio Montalto, il presidente di Corte di Assise Alberto Giacomelli, quel gran giornalista che era Mauro Rostagno. Volevano uccidere con i kalashnikov e non ci sono riusciti – nonostante un gruppo di sicari molto “qualificato” (Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca e l’immancabile Matteo) che non si era mai visto prima né l’avremmo mai visto poi – anche il commissario Rino Germanà che nel 1992 indagava al fianco di Borsellino. A Trapani ci sono fili ad alta tensione.
A Trapani tutto deve restare com’è. Con o senza Matteo.
A Trapani c’è anche il più grande imprenditore della Sicilia. È un giudice, il presidente del Tribunale delle misure di prevenzione Piero Grillo. Nella sua stanza amministra beni da record nazionale. Un miliardo e 600 milioni di euro del boss Gaetano Virga, un miliardo e 300 milioni del “re del vento” Vito Nicastri, 800 milioni del ras dei supermercati Giuseppe Grigoli. Entro l’estate il giudice Grillo dovrà sentenziare anche sul patrimonio di Carmelo Patti, mister Valtur, valore stimato 5 miliardi, quasi mezza Finanziaria. Emigrante d’oro di ritorno, Patti – recentemente scomparso – nel novembre del 2000 si presentò al teatro Massimo di Palermo per intimare: «Basta, è l’ora che la Sicilia smetta i panni di covo della Piovra». Con il senno di poi, potremmo considerarlo un esemplare più “evoluto” del compianto sindaco Garuccio. Vedremo, quando arresteranno Matteo, se qualcuno dirà ancora che a Trapani esiste la mafia.