Corriere della Sera, 1 marzo 2016
Nell’amore, come nell’arte, la costanza è tutto. Ennio Morricone si racconta, dall’infanzia all’Oscar
Il mattino dopo la voce di Ennio Morricone è tornata ferma, con il suo accento trasteverino: «È vero, al momento di ritirare l’Oscar mi tremava un po’. È stato bravo mio figlio Giovanni, a farmi da interprete: l’inglese proprio non lo mastico. È stato bravo anche a sorreggermi: pure le gambe un po’ mi tremavano…».
Ennio Morricone parla con orgoglio dei figli: oltre a Giovanni, Marco, Alessandra, Andrea. E ripercorre al telefono la storia d’amore che ha emozionato l’Italia: quella con la moglie Maria, cui ha dedicato l’Oscar. «Ci siamo conosciuti a Roma nell’Anno Santo: il 1950. Lei è nata in Sicilia ma è venuta nella Capitale a tre anni. Era amica di mia sorella Adriana. A me piacque subito moltissimo. Poi Maria ebbe un incidente, con la macchina di suo papà. Un attimo di distrazione, e andò a sbattere. La ingessarono dal collo alla vita, come si faceva allora. Soffriva moltissimo. Io le sono rimasto vicino. E così, giorno per giorno, goccia dopo goccia, l’ho fatta innamorare. Perché nell’amore come nell’arte la costanza è tutto. Non so se esistano il colpo di fulmine, o l’intuizione soprannaturale. So che esistono la tenuta, la coerenza, la serietà, la durata. E, certo, la fedeltà. Fatto sta che ci fidanzammo. E ci sposammo il 13 ottobre 1956: tra qualche mese festeggiamo i settant’anni di matrimonio». Come si fa a stare settant’anni con la stessa donna? Ora non usa più. Morricone ride: «La domanda la deve fare a mia moglie. È stata bravissima lei a sopportare me. È vero, qualche volta sono stato io a sopportarla. Ma vivere con uno che fa il mio mestiere non è facile. Attenzione militare. Orari rigorosi. Giornate intere senza vedere nessuno. Sono un tipo duro, innanzitutto con me stesso e di conseguenza con chi mi sta attorno. Altrimenti i risultati non arrivano. Il successo viene certo dal talento ma più ancora dal lavoro, dall’esperienza e, ripeto, dalla fedeltà: alla propria arte come alla propria donna. Mi sono dato la regola di dare il meglio, sempre. Anche se non sempre ci si riesce».
«Sono felice per il cinema italiano, che non è affatto morto, anzi è più vivo che mai. D’accordo, sotto Natale escono sempre film un po’ semplici. Ma Giuseppe Tornatore per me è un grandissimo artista, uno che resterà. Stimo molto anche Paolo Sorrentino. C’è ancora qualche bravo compositore, ma sono rimasti in pochi: da quando si è imboccata la scorciatoia del sintetizzatore, dove fai tutto o quasi con un solo accordo, la qualità della musica nel cinema e nella fiction è scesa. Con la Rai ho chiuso. L’ultima volta mi hanno cercato per un’opera di Alberto Negrin. Mi hanno detto: “Ci sono diecimila euro per lei e per l’orchestra”. Ora, io posso anche decidere di lavorare gratis per la tv del mio Paese, ma i musicisti vanno rispettati. Incidere una colonna sonora con un’orchestra costa almeno 20, 30, forse 40 mila euro. È stato un momento di grande imbarazzo. Così ho dovuto dire: basta, grazie». Ma se la Rai tornasse a chiamarla? «Non credo che lo faranno. È una storia finita. Li capisco. Sono ristrettezze necessarie, le condivido anche; ma non posso chiedere ai musicisti di suonare a loro spese».
In compenso l’ha cercata Quentin Tarantino. Un sanguinario, almeno a vedere i suoi film. «Tutt’altro! È una persona piena di umanità. Le sue scene possono sembrare un po’ terribili. Ma voi fate così: quando le guardate, provate a soffermarvi non sull’assassino, bensì sulla vittima. Nell’occhio della vittima si vede tutta la sensibilità di Tarantino. Io non lo conoscevo, ma sapevo che nei suoi film aveva inserito varie musiche composte da me per Sergio Leone. Poi mi ha chiamato per chiedermi la colonna sonora di un western. E invece ho fatto di testa mia, creando una musica molto diversa da quella che avevo pensato per Leone. Per fortuna ha funzionato». Nella colonna sonora di The Hateful Eight in effetti sembra di sentire l’eco della musica contemporanea che lei ha composto. «Preferisco parlare di musica assoluta, perché anche quella dei film è musica contemporanea. Farò tre concerti a Santa Cecilia, a Roma: Voci dal silenzio, una sinfonia di mezz’ora con coro, orchestra e voce recitante; un omaggio allo scrittore sudafricano Richard Rive, martire della lotta contro l’apartheid».
A Roma, la città dov’è nato il 10 novembre 1928, Morricone è legatissimo. È stato testimone dei momenti più drammatici della sua storia: «Mio zio aveva una falegnameria, e io nei mesi dell’occupazione nazista andavo impolveratissimo con il triciclo a prendere sacchi di trucioli per portarli dal fornaio: ogni dieci sacchi, un chilo di pane. Un giorno in piazza Colonna incontrai un prete partigiano, don Paolo Pecoraro, che mi disse: “Tra poco ne sentirete delle belle”. Poco dopo sentii un botto. Era la bomba di via Rasella. Poi arrivarono gli americani, e suonai la tromba per loro nei locali di via Cavour. Non ci davano soldi ma cibo – pane bianco, cioccolata, anche pietanze già cucinate – e sigarette; io non fumavo, rivendevo le sigarette per strada e portavo i soldi a casa».
«Anche l’amore per Roma, come per Maria, dura da una vita; mi fa molto male vedere la mia città ridotta così. Abito vicino a piazza Venezia. Quando esco in macchina mi pare di stare in barca o su una pista da ballo, tanto è sconnessa la strada. Purtroppo non ci sono più soldi, amministrare è diventato difficilissimo. Renzi fa bene a battersi in Europa per avere più flessibilità. A me pare bravo. So che molti non sono d’accordo con lui, che gli rimproverano forzature. Ma viva le forzature, se servono a scuotere un Parlamento che dormiva da anni: Renzi ha fatto la riforma del Senato, le unioni civili. Spero e credo che continuerà». E in America? «Obama a me non è dispiaciuto. Ha fatto il suo dovere, pur avendo il Congresso contro». Che effetto le fa l’appoggio di Clint Eastwood a Donald Trump? «Rispetto Clint e le sue idee. Ma su Trump proprio non sono d’accordo!».