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 2016  marzo 01 Martedì calendario

«Sono quasi tutti africani che non sanno nuotare e non hanno mai visto prima il mare. Quando i nostri si avvicinano si alzano in piedi, si sbracciano. E così rischiano di rovesciarsi e andare a fondo». Intervista a Salvatore Vitiello, comandante dell’operazione Mare Sicuro

C’è mare grosso nelle acque internazionali davanti alla Libia. Onde alte 6 metri. Raffiche di maestrale che raggiungono i cento chilometri all’ora. Eppure il dispositivo navale di «Mare Sicuro» è lì, schierato da un anno a difesa delle rotte verso l’Italia e delle piattaforme petrolifere. Mille uomini e donne imbarcati in cinque navi militari, tra le imponenti fregate e i più piccoli pattugliatori d’altura, all’altezza di Sirte, Sabrata, Zuhara, Derna. A comandarli c’è il contrammiraglio Salvatore Vitiello. «Siamo qui, in condizioni non agevoli, ma comunque sopportabili, a fare il nostro dovere con spirito di sacrificio. E anche con orgoglio, specie quando salviamo migliaia di persone come è successo qualche giorno fa». 
Ammiraglio, voi non siete in mare per salvare i migranti. Però lo fate. Ci spiega che cosa accade?
«Premesso che salvare vite è un impegno prioritario per un marinaio, la settimana scorsa, tra il 21 e il 23 febbraio abbiamo soccorso 17 gommoni. In totale erano 2000 migranti partiti dalla Libia. Guardi, un conto è vedere le fotografie, altro è essere qui e trovarsi di fronte a un gommone di 10 metri con 120 persone a bordo. È un miracolo che tenga il mare. Sono quasi tutti africani che non sanno nuotare e non hanno mai visto prima il mare. I trafficanti li forzano a salire e poi li abbandonano alla deriva verso Lampedusa. Noi li individuiamo e li andiamo a prendere. Ma pochi immaginano il pericolo quando i nostri si avvicinano...». 
Perché?
«Perché sono terrorizzati, si alzano in piedi, si sbracciano. E così rischiano di rovesciarsi e andare a fondo. Perciò i nostri, che si avvicinano con altri gommoni, innanzitutto li devono tranquillizzare, quindi gli lanciano le sacche con i salvagente. Ad ogni soccorso servono dieci o dodici sacche. A gesti gli fanno capire di indossare i giubbotti. Poi si procede a trainarli e portarli a bordo. Prima le donne e i bambini. Ci sono tantissimi bambini... A bordo vengono sottoposti a una prima visita medica, fondamentale, perché se ci sono sospetti vengono messi in isolamento, e si fanno le prime “interviste”. Indispensabili per identificare i presunti scafisti. In un anno abbiamo fermato, su autorizzazione del magistrato di Catania o di Siracusa, 577 presunti trafficanti».
Intanto, in questi dodici mesi, il Califfato si è affacciato sulla costa. E il pericolo terrorista non è più solo un’ipotesi di scuola, o no?
«Il governo ha avviato questa missione nel febbraio 2015 quando capitò che i trafficanti spararono contro una motovedetta della Capitaneria per indurli a fare presto e mollare un barcone. Da allora la musica è cambiata: abbiamo salvato 140 mila persone, distrutto 270 imbarcazioni che non hanno potuto riutilizzare, nessuno di questi signori ha avuto più l’ardire di avvicinarsi a chi fa soccorso. Allo stesso tempo abbiamo registrato il presentarsi della minaccia terroristica. Si pensi solo al danno economico e ambientale se colpissero una piattaforma petrolifera che dista appena 60 miglia da Lampedusa o 100 miglia dalla Sicilia. Noi siamo qui, osserviamo, vigiliamo. Facciamo deterrenza. In un anno abbiamo abbordato 55 mercantili per verificarne il carico. I nostri incursori hanno anche liberato un peschereccio siciliano sequestrato da presunti militari libici».
Brutte sorprese?
«Finora nessuna, per fortuna. Pensate però che cosa potrebbe accadere se non ci fossimo».