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 2016  marzo 01 Martedì calendario

La Cina svaluta ancora lo yuan

Ritorno al passato per il Governatore della Banca centrale Zhou Xiaochuan che ieri, appena archiviato il G20 finanziario con il suo carico di buone intenzioni, ha dato un’ulteriore sforbiciata ai ratios dello 0,5%. La misura entra in vigore oggi, per le banche più grandi la percentuale resta intorno al 17%, tra le più alte al mondo, ma questa mossa praticata ripetutamente a partire dall’anno scorso, non era affatto preventivata. Tanto più che lo stesso Governatore in un documento diffuso durante la conferenza stampa del G20 ha ammesso che in certi casi la Banca centrale ha dovuto nuovamente innalzare il ratios di alcune banche commerciali, incapaci di rispettare i nuovi limiti imposti, in tal modo dimostrando che non si tratta di una misura in grado di poter essere adottata in maniera generalizzata. Che ci sono banche e banche e che in alcuni casi le debolezze sono particolarmente evidenti.
Non è stata l’unica sorpresa, quella del taglio dei ratios: dopo aver più volte ripetuto nel weekend, nell’ambito del G20, che non ci sarebbero state altre discese nella quotazione del renminbi, il Governatore ha fissato il tasso di cambio sul dollaro a 6,5452 (-0,17% su venerdì) portandolo ai minimi dal 3 febbraio. Il renminbi nel pomeriggio viaggiava su quota 6,5472 sul dollaro, ai livelli più deboli del 6,5372 di venerdì. L’incubo del taglio del 5% in una settimana realizzato nello scorso mese di agosto continua ad aleggiare, ma sembra che la svalutazione sia comunque un dato di fatto, ormai, nel sistema cinese. Ad onta di tutte le promesse fatte da Pechino.
Infine, Zhou ha immesso altri 230 miliardi di yuan (35 miliardi di dollari) sui mercati per allentare le tensioni sulla liquidità, in pratica nell’ultima settimana la Banca centrale ha messo sul piatto un migliaio di miliardi.
Una tripletta che ha seminato sconcerto tra gli operatori, i mercati non hanno evidentemente apprezzato e, in chiusura, le borse di Shanghai e Shenzhen hanno accusato pesanti perdite pari, rispettivamente, al 2,86% e al 5,37%, scivolando ai minimi degli ultimi 15 mesi. Lo Shanghai Composite ha perso il 24% quest’anno, la peggiore performance tra i 93 indici più importanti al mondo.
Se la Banca centrale voleva dare, dunque, un segnale di stabilità utilizzando un mix di interventi – un elemento che Pechino rivendica come un vantaggio competitivo rispetto ad altre economie – non ha affatto centrato l’obiettivo, né c’è la certezza che la liquidità prodotta da queste misure vada nella direzione giusta. Tanto più che le autorità monetarie, preoccupate di arginare le fughe di capitali legate ai tagli ai tassi di interesse e allo yuan debole, non a caso hanno preferito imboccare la strada dei tagli ai ratios che, piuttosto, incentivano le banche a concedere prestiti.
Sarebbe opportuno che questa liquidità andasse a finanziare le riforme. E che la politica monetaria andasse a braccetto con una fiscal policy a sostegno di investimenti, spesa sociale, tagli alle tasse.
Ma la Cina deve mettere insieme troppi tasselli, la Plenaria del Parlamento sta per aprire i battenti, dovrà affrontare proprio questi temi e approvare, in contemporanea, il 13esimo piano quinquennale. Meglio arrivarci in apparente stato di salute, in buona forma, ma con le variabili dei mercati l’esito delle manovre non è mai assicurato.
Certamente con questo esordio di settimana la premessa maggiore del documento finale del G20 che archivia solennemente il primato delle politiche monetarie sostenendo la necessità di interventi di altro tipo per stimolare la crescita, sembra essere piombata repentinamente nel nulla.