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 2016  marzo 01 Martedì calendario

A Tripoli gli americani già ci sono

Non serve andare lontano. Gli uomini delle squadre speciali americane, inglesi e francesi li incontri subito atterrando nella capitale. Ieri pomeriggio si trovavano agli arrivi dell’aeroporto di Mitiga, l’unico scalo di Tripoli faticosamente sopravvissuto alle guerre fratricide tra milizie degli anni scorsi. Non appaiono per nulla contractor civili che fanno la guerra per lavoro, sono piuttosto agenti super-addestrati, militari vestiti in borghese, come quelli che si vedevano a Kabul e Bagdad appena dopo le invasioni rispettivamente del 2001 e 2003. Sguardi attenti, vigili, capelli corti, fisici palestrati evidenti anche sotto gli abiti larghi, coordinati con altri colleghi nel parcheggio su gipponi fintamente malandati, controllano il traffico, specialmente in arrivo. Ti squadrano per un attimo e svaniscono. Li noti anche perché in passato non c’erano, o comunque non erano così evidenti. Solo nell’agosto scorso non se ne vedeva traccia. «Certo che gli agenti stranieri lavorano con noi. E sono utilissimi nella lotta contro l’Isis. Hanno gli strumenti, la conoscenza e soprattutto i mezzi per agire con efficienza. Che io sappia in maggioranza sono americani, seguono inglesi e francesi», ci spiega poco dopo, seduto ai tavoli del Caffè Casa, all’ingresso della città vecchia, il 39enne Walid al Sheikh, uomo dell’unità dell’intelligence impegnata nel dar la caccia all’Isis per «Alba Libica», la brigata più importante che controlla la capitale. E italiani? Ci sono anche agenti italiani? «Che io sappia no. Non ne ho incontrati di recente», risponde.
A parte gli agenti, è però una Tripoli parecchio schizofrenica quella ci accoglie in questi giorni. Capitale di un Paese come sospeso tra un passato di fallimenti, un presente caotico in piena crisi d’identità e un futuro nero. E un Paese dove non trovi quello che ti aspettavi arrivando dall’Europa. Per esempio: credevi che la maggior preoccupazione dei libici fosse la creazione di un governo di unità nazionale tra Tripoli e Tobruk, che permetta finalmente di coordinare gli sforzi contro la penetrazione dell’Isis e lo sfaldamento nazionale? Invece, la ventina di persone con cui abbiamo parlato ieri si è dimostrata largamente scettica, se non addirittura ostile al gabinetto unitario così come mediato anche con l’aiuto delle Nazioni Unite negli ultimi mesi. «Che alla fine il parlamentino di Tobruk voti o meno la fiducia al nuovo governo conta molto poco. Quel governo è finto, artificiale, composto da persone che trascorrono all’estero gran parte del loro tempo, avrà vita breve», sostengono giovani e anziani nella ex «piazza Verde» di gheddafiana memoria ora ribattezzata «piazza dei Martiri» e ancora imbandierata a festa per le recenti celebrazioni del quinto anniversario della rivoluzione. L’ostilità per Fayez al Sarraj, il neo-premier (ma ancora solo sulla carta) è ampia e sentita. «Un burattino nelle mani degli stranieri. Come del resto è il generale Khalifa Haftar, che a Tobruk vorrebbero imporci come prossimo ministro della Difesa, ma che in passato fu un fedele di Gheddafi», tuona il 32enne Taha Mustafa, responsabile della sicurezza nella zona della piazza. Ci ferma all’imbrunire perché non vuole si scattino foto di un certo palazzo. Ma alla fine neppure le guarda e non si tira indietro a ironizzare scherzoso sul destino incerto di questa rivoluzione che non sta andando da nessuna parte.
I problemi veri, quelli più sentiti da tutti sulla loro pelle, sono invece altri. Il più importante? Il crollo del prezzo del greggio e soprattutto il blocco delle esportazioni libiche a causa dell’anarchia interna e dell’arrivo dell’Isis. «Il 95 per cento delle entrate libiche sono sempre venute dall’energia. Nel 2010 sfioravamo 1,6 milioni di barili di greggio quotidiani, oggi siamo a 200.000. A ciò si aggiunge la caduta dei prezzi. Risultato: siamo passati da entrate annuali nelle casse dello Stato pari a 50 miliardi di dollari sei anni fa ai circa 10 milioni odierni. Una catastrofe. Ne risulta che lo Stato da due mesi non paga più gli stipendi al suo milione e mezzo di dipendenti. Siamo in piena crisi», afferma preciso Nasser Elmahel, 30anni, impiegato presso la «Aman», una delle maggiori banche private. Pessime le conseguenze. Storicamente la Libia, come tutti i Paesi produttori, impiega nelle aziende statali gran parte della forza lavoro nazionale. Ora su cinque milioni di abitanti complessivi quasi un terzo non riceve lo stipendio da dicembre. «Significa che la gente non si fida più di nulla e di nessuno. Chi è stato veloce ha ritirato tutti i suoi risparmi. Ora il limite prelevabile per legge sono solo 50 euro al giorno. L’economia è bloccata, nessuno investe, impazza il mercato nero», aggiunge. Ma l’effetto più grave si individua nella crescita della criminalità. «L’Isis è meno pericoloso della bande di ladri. I media locali non lo dicono. Ma i sequestri a scopo di estorsione sono all’ordine del giorno. Posso testimoniarlo io stesso, due colleghi che lavorano nel mio ufficio sono stati rapiti da dicembre a oggi».
Le proteste popolari più recenti si sono concentrate sul prezzo della benzina. Il governo vorrebbe liberalizzarlo e aumentarlo sino a mezzo euro al litro. Ma la piazza non ci sta. Gheddafi aveva imposto il prezzo politico (e demagogico) di un euro per 30 litri. Oggi proprio la memoria di quella scelta alimenta la nostalgia di chi, magari obtorto collo anche tra i rivoluzionari, ammette che «si stava meglio quando c’era Lui». E invece la città si risveglia ogni mattina con l’attività sempre più intensa degli uomini della «Rada», la brigata legata a «Alba Libica» ma creata con il proposito di «imporre nuove regole morali islamiche» e allo stesso tempo combattere l’Isis. Negli ultimi tempi hanno abbattuto un paio di rivendite di sigarette, l’alcol è un tabù sempre più stretto. I suoi militanti ammettono che l’Isis ha ormai cellule attive anche nella capitale. «L’Isis è arrivato in Libia con i volontari stranieri, per lo più iracheni, egiziani, tunisini, sudanesi, afghani. Ma adesso sta facendo proseliti tra le tribù che nel passato erano fedeli a Gheddafi. Cercano vendetta e vogliono tornare al potere. Non a caso sono più forti proprio a Sirte, Bani Walid, Sabrata e stanno arrivando a Tripoli: le ex roccaforti di Gheddafi», spiega ancora l’agente Walid al Sheikh. A suo dire la battaglia è ancora tutta da combattere e sarà dura: «Siamo un Paese confuso, spaventato. L’Isis ha un messaggio chiaro, forte, carismatico. Se avessi 18 anni mi arruolerei anch’io. Anche per questo ne ho paura».