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 2016  febbraio 27 Sabato calendario

Non s’era mai visto un ministro dell’Interno inquisito dalla magistratura

Non s’era mai visto, nella pur disonorevole storia della Seconda Repubblica, un ministro dell’Interno inquisito dalla magistratura. L’unica eccezione fu Beppe Pisanu, responsabile del Viminale del secondo governo B., iscritto nel registro degli indagati nel 2006 come “atto dovuto” e poi rapidamente archiviato in seguito alla denuncia di una trentina di parlamentari di sinistra per i respingimenti dei migranti nel Mediterraneo. Il caso Alfano, come raccontano Giuseppe Lo Bianco e Marco Lillo, è tutt’affatto diverso: non si tratta del solito esposto che la magistratura è costretta doverosamente a verificare, ma di un’attività di indagine fondata su documenti, testimonianze e intercettazioni. Che, comunque andrà a finire (il Tribunale dei ministri è di solito una macchina di archiviazioni e l’abuso d’ufficio, dopo la controriforma del 1997, è un reato scritto apposta per non far condannare nessuno), evidenzia un gigantesco abuso di potere. E che dovrebbe indurre il ministro Alfano a rassegnare immediatamente le dimissioni, o in subordine il premier Renzi a pretenderle su due piedi. Per tre motivi.
1) Una questione di principio: il ministro dell’Interno è il responsabile della sicurezza pubblica e di fatto il capo delle forze dell’ordine, che dipendono gerarchicamente da lui e ora indagano su di lui. Il fatto che sia sospettato di aver violato la legge dovrebbe mettere in imbarazzo non soltanto lui, ma tutto il governo e la maggioranza. Quando, nel 2008, il ministro della Giustizia Clemente Mastella fu indagato a S. Maria Capua Vetere, si dimise all’istante perché non s’era mai visto un Guardasigilli sotto inchiesta: e lui non era il capo dei giudici, mentre Alfano lo è della Polizia, tramite un prefetto da lui nominato. Quindi dovrebbe dare il buon esempio, premiando chi fa il proprio dovere e allontanando chi non lo fa. Non viceversa.
2) Una questione di merito. A prescindere dalla rilevanza penale dei fatti, che sarà valutata dalla magistratura, l’abuso di potere commesso da Alfano e dal suo viceministro Bubbico (indagato con lui) su richiesta del ras Pd di Enna Vladimiro Crisafulli (indagato con loro) non dev’essere dimostrato: è scritto nel verbale del Consiglio dei ministri del 23 dicembre che trasferisce a Isernia il prefetto di Enna, Fernando Guida, reo di aver avviato cinque giorni prima le pratiche per il commissariamento della cosiddetta università Kore, cioè della grande mangiatoia bipartisan di soldi pubblici, da anni al centro di scandali e inchieste.
3) Il grumo di affari e malaffari che, ancora una volta, l’inchiesta scoperchia incrociando uno dei tre veri padroni dell’Ncd, tutti imparentati e originari di Bronte (Catania): l’ex senatore Dc e poi Pdl Pino Firrarello, che nel 1999 fu salvato dall’arresto per concorso esterno in mafia dal solito voto-scandalo della Camera (il mafioso Enzo Mangion, parlando del ruolo del clan Santapaola nella sua elezione, lo definiva “il nostro cavallo vincente”), e fu poi condannato nel 2007 a 2 anni per corruzione e turbativa d’asta nel processo per le tangenti sul nuovo ospedale etneo; dunque fu sindaco di Bronte dal 2005 al 2015. Firrarello è suocero di Giuseppe Castiglione, sottosegretario Ncd all’Agricoltura del governo Renzi, indagato in Mafia Capitale per turbativa d’asta nello scandalo del Cara di Mineo. Ed è anche il cugino di Vito Bonsignore, già capo degli andreottiani a Torino, poi parlamentare Udc ora passato a Ncd, ma soprattutto imprenditore e asso pigliatutto delle autostrade, condannato in Tangentopoli a 2 anni per tentata corruzione e ricondannato a 3 anni in tribunale per la Bancopoli dei furbetti del quartierino, ma poi assolto in appello.
Senza la triade Firrarello-Castiglione-Bonsignore, Alfano non prenderebbe neppure i voti dei parenti stretti. E infatti, secondo gli atti dell’inchiesta, è anche a Firrarello che, per la sua vicinanza con Alfano, si rivolge Crisafulli alla vigilia del Cdm del 23 dicembre per trasmettere l’ordine di sfratto al prefetto scomodo. Ordine puntualmente eseguito da Alfano, sebbene il funzionario fosse in carica da meno di due anni (il tempo minimo di permanenza di un prefetto in una città). Così il commissariamento della Kore salta, almeno fino al 1° febbraio: quel giorno Alfano e Bubbico ricevono l’avviso di garanzia e, come per incanto, in poche ore la Prefettura di Enna ha il via libera per sciogliere la Kore e nominare i commissari. Per accertare l’abuso d’ufficio bisogna attendere le sentenze. Ma, per accertare l’abuso di potere, basta questa cronologia. Almeno per chi la vuol vedere. Già, ma chi la vuol vedere?
Dal governo e dal Pd, silenzio di tomba (mica siamo a Quarto). I tg Rai ignorano o relegano tra le brevi di cronaca il ministro Alfano indagato e soprattutto la storia che c’è dietro. E per trovarne traccia sui due principali quotidiani italiani bisogna armarsi di microscopio elettronico: 14 righe a pagina 12 sul Corriere, 33 righe a pagina 26 su Repubblica (l’Unità 14 righe, ma è fuori concorso perché non è più un giornale). Encomiabile sforzo per tenere la notizia a debita distanza dalle cronache sulla Cirinnà, come se l’Alfano indagato per abuso non fosse lo stesso che ha imposto il dietrofront sulla legge riesumando contro i gay l’anatema “contro natura” che farebbe arrossire persino un prete lefebvriano. Ora, a costo di passare per nostalgici di B., poniamoci una domanda: che accadrebbe se al governo ci fosse ancora lui e il suo ministro dell’Interno fosse indagato per aver cacciato un prefetto colpevole di fare il proprio dovere? Su, dai, la risposta la conosciamo tutti.