Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  febbraio 28 Domenica calendario

Il mondo di luci, colori e atmosfere di Ettore Spalletti

«Lo so, stiamo parlando di cose di cui non si parla più, stiamo parlando di colore, di luce, di atmosfera. E soprattutto del tempo, ecco, stiamo parlando del tempo. Ma sono proprio queste le cose che mi interessano. Del colore che nasce limpido la mattina e che si ammorbidisce durante il giorno fino ad arrivare a sera quando è sfumato. Del colore che si trasforma con la luce come quando una nuvola passa sopra il mio studio e per un momento copre il sole e io vengo rapito da quel passaggio in cui i toni si raffreddano per poi tornare in tutta la loro intensità quando la nuvola si sposta. In queste circostanze il tempo diventa un elemento tangibile, scandito dalla luce e dall’ombra».
Ettore Spalletti, settantasei anni, è un uomo alto, gli occhi intensi che si muovono con grande attenzione dietro le spesse lenti degli occhiali. Molto elegante, è spesso vestito di blu o di nero.
Parla lentamente, con lunghe pause fra un pensiero e l’altro, e usa un linguaggio antico, come fosse un artista d’altri tempi. E del resto il suo è un lavoro sul tempo inteso in senso cosmico, esistenziale, come luogo delle ere geologiche. «Sì, è il tempo la nostra dimensione, ci siamo immersi, e le atmosfere lo scandiscono in modo perfetto, fisico, concreto. Un po’ come quando vai a fare una passeggiata al tramonto: prima vedi il mare azzurro e il cielo un po’ più chiaro poi, a un certo punto, tutto diventa d’argento, non senti più i confini e allora ti sembra di essere in un deserto, l’infinito lo senti intorno a te».
Siamo nel suo studio, nella campagna di Cappelle sul Tavo, il paese natale di Spalletti, in mezzo al nulla delle colline pescaresi e al silenzio degli ulivi. Ma all’interno di questo hangar immenso potremmo tranquillamente trovarci in una galleria d’arte di Chelsea, a Manhattan.
La luce naturale cade a strapiombo dall’alto e intorno a noi tutto è bianco, mentre il sistema di illuminazione è
studiato in modo da calibrare l’intensità della luce su quadri e sculture. I suoi dipinti monocromi – blu, azzurri, rosa, bianchi – sono installati a regola d’arte in modo da poter osservare effetti e variazioni di luce e colore sui pigmenti minuziosamente scelti e miscelati per ottenere gli effetti tattili e ottici desiderati. «I miei colori, quelli in cui mi riconosco di più, sono spesso colori atmosferici. Prenda l’azzurro: ci sta sempre intorno, non ha una sua fissità, è un colore che si trasforma costantemente, che ci avvolge in ogni momento anche mentre camminiamo e stagliamo la nostra sagoma su un’atmosfera fatta di infinite variazioni di azzurri. E il rosa, non appartiene forse alla natura? È il colore dell’incarnato, ma anche l’incarnato non è immutabile, può essere livido o sereno, riflette gli stati d’animo della persona, l’umore del momento. E poi c’è il bianco. Il bianco è la somma tra questi colori, forse quello più accogliente, è l’offerta più grande, è la timidezza». Non a caso il titolo delle tre grandi mostre italiane del 2014, al Maxxi di Roma, al Madre di Napoli e alla Gam di Torino era “Un giorno così bianco, così bianco”. A Roma aveva allestito un’intera stanza di pannelli bianchi fatti di pigmento. Dava la percezione di uno spazio profondo, avvolgente, infinito, se non fosse stato per i contorni in oro che delimitavano i singoli pannelli: «Sì, era un lavoro ambientale in cui perdersi e ritrovarsi», ci spiega oggi l’artista, «in quella stanza bianca la luce incideva sui pigmenti fino a dissolverli, a romperne la fissità, e allora il colore non è più bidimensionale, ma diventa volume. Tu sei là dentro e percepisci la stanza tutta attorno a te, ed è proprio quando ti senti così che la stanza si apre, gli spazi raddoppiano, non sai più nemmeno in che luogo sei ma provi uno strano agio a starci dentro, ritrovi una spiritualità che abbiamo quasi perso oppure che andiamo a cercare altrove mentre invece dovremmo trovarla in noi stessi. Lo spazio che occupiamo verticalmente, stando in piedi è già tanto: tutto è dentro di noi».
Al centro dello studio Spalletti ha installato alcune sculture in alabastro, colonne, parallelepipedi, forme nette, geometriche, ramificate nelle venature trasparenti della pietra. «L’alabastro è una pietra che, come l’acqua, solidifica. Era usata anche per i vetri nelle chiese bizantine. È un colore trasparente, sta lì, fermo, brillante, e però non sai mai se il giorno dopo lo ritroverai della stessa forma o se invece durante la notte si sarà sciolto per tornare a essere acqua. Almeno questa è la sensazione che provo io». Con le sue opere ha un rapporto molto particolare, che va ben oltre l’installazione. Nel suo studio vi lavora minuziosamente fino a che non sono le opere stesse a dichiarare di essere pronte per essere esposte: «Quando ho fatto delle mostre (dal Guggenheim di New York alla Biennale di Venezia, da Documenta a Kassel al MoMa, da Lia Rumma a Milano a Vistamare a Pescara, fino alla nuova personale che inaugurerà a primavera da Marian Goodman a Londra,
ndr)
è perché ho sentito che era il mio lavoro
a chiedermi di uscire da qui. Questo lavoro che per quarant’anni mi aveva dato tanto mi chiedeva ora di fare una cosa per lui». Con l’opera quello di Spalletti è un dialogo aperto e in divenire in cui entrano storia e storia dell’arte, dall’oro di Giotto al rigore geometrico del Concettuale. E poi luoghi, atmosfere, persone. E poesia, da Borges a Sandro Penna: «Una poesia quasi sempre si completa in una pagina, e in questo somiglia a un quadro. È compatta, immediata, evocativa. Ha una forma decisa. Se la capisci, ti resta subito dentro. Se non la cogli in quel momento forse la ritroverai più avanti. È una cosa che mi capita spesso. Amo talmente la poesia che a volte ne trascrivo alcune dietro i miei quadri. Proprio così, se leggo una poesia che mi piace prima la trascrivo su un fogliettino di carta e poi dopo la riscrivo...». Una passione nata da ragazzo, una volta abbandonata la scuola. «Volevo dedicarmi al mio lavoro a tempo pieno, ma diciamo che era anche un’epoca in cui si poteva sognare in questo modo». Erano gli anni Settanta e Pescara era un posto interessante, c’era Mario Pieroni con il suo progetto “Il Mondo delle idee” e la sua galleria, poi arrivò Joseph Beuys invitato da Lucrezia De Domizio, gli artisti delle Neoavangardie e dell’Arte Povera e Getulio Alviani, Jannis Kounellis, Gino De Dominicis. E poi c’era Cesare Manzo che con il progetto “Fuori Uso” ha portato in Abruzzo artisti da tutto il mondo. E naturalmente c’era Ettore Spalletti. È qui che ha iniziato il suo viaggio, questo il luogo della sua ispirazione e quello a cui
sempre ritornare.