la Repubblica, 28 febbraio 2016
Michele Serra, uno che si accontenta
«Ma tu ormai sei uno che si accontenta», mi dice un vecchio amico con un sorriso metà affettuoso metà sarcastico. Abbiamo appena finito di discutere appassionatamente della legge Cirinnà. Del fatto che a Luigi Manconi, a Michela Murgia e ad altre stimabili persone non piace, perché è stata stralciata l’adozione del figlio del partner e perché l’ha votata Verdini. Io la difendo, quella legge, ma forse il mio amico ha ragione: sono diventato uno che si accontenta. Non lo dico né per vantarmi né per discolparmi. Non per indicare una meta raggiunta, non per denunciare una sconfitta. Lo dico perché sento che è così, tra niente e qualcosa preferisco qualcosa, forse ho imparato a relativizzare le passioni e le speranze, forse in un paese così tragicamente zavorrato, così maledettamente uguale a se stesso, ogni passo in avanti mi sembra un progresso gigantesco. Ogni volta che la situazione politica mi sembra penosa (cioè spesso) penso che solo tre generazioni fa eravamo un paese di contadini analfabeti, uscito da vent’anni di fascismo, con la Chiesa in casa, una borghesia gracile e gretta, nessuna rivoluzione alle spalle se non quella risorgimentale, fatta da pochi animosi e da uno statista abile e politicante, Cavour. Bravi nel lavoro ma ignoranti, poveri, poco scolarizzati, sottomessi al prete e al padrone. Siamo partiti da poco, e dal basso. Lo dico per consolazione? Può darsi.