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 2016  febbraio 28 Domenica calendario

Com’è cambiata la mafia a trent’anni dal maxi processo. Ce lo spiegano Roberto Scarpinato e Salvatore Lupo

È sempre la stessa o è cambiata? È più forte di prima perché non spara o è in disparte in attesa di tempi migliori? Ha mantenuto la sua natura originaria o è diventata solo “finanziaria” e internazionale? La Cupola c’è ancora? Chi sono i nuovi capi? E che rapporto ha con la politica? A 30 anni dall’inizio maxi processo – capolavoro di ingegneria giudiziaria firmato da Giovanni Falcone – e a quasi 25 dalle stragi di Capaci e di via D’Amelio, la faccia sconcia di Totò Riina non basta più a spiegare cosa è la mafia oggi. Materia di dibattito fra intelligenze investigative ed esperti di criminalità politica, la questione unisce o divide, scatena dispute nelle commissioni parlamentari e ai più alti livelli nelle procure distrettuali. I convincimenti sono assai diversi, c’è anche molta incertezza o confusione. Paradossalmente, è argomento trascurato ormai solo da un’Antimafia sociale sempre più intellettualmente apatica e incapace di riconoscere il proprio nemico. Questa inchiesta parte con le interviste a due tra i più autorevoli conoscitori di Cosa nostra, il procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato e lo storico Salvatore Lupo. Uno è stato pm in molte delle inchieste che hanno segnato la vicenda siciliana degli ultimi vent’anni, la più famosa contro Giulio Andreotti.
L’altro è professore ordinario di Storia contemporanea all’Università di Palermo, autore di saggi, il più noto dei quali è una Storia della Mafia del 1993. A loro la parola.

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Cosa è la mafia oggi?
«Non ce n’è una sola. C’è una mafia popolare che è in crisi, ce n’è un’altra che offre sul libero mercato beni e servizi illegali per i quali vi è una domanda di massa, poi c’è un’aristocrazia mafiosa che ha fatto un salto in circoli ristretti che gestiscono legalmente grandi affari».
Procuratore Roberto Scarpinato, cominciamo dalla mafia che ha fatto il salto.
«Anche nel mondo mafioso c’è stata una selezione della specie. Solo alcune élite criminali partecipano al gioco grande del potere, dove a livello apicale gestiscono le leve della residua spesa pubblica e dei business che richiedono competenze complesse multilivello: dal settore dell’energia a quello delle privatizzazioni. Da anni uso la denominazione “sistemi criminali”, network nei quali esponenti di mondi diversi mettono in comune risorse di potere politico ed economico – e se occorre anche militare – per colonizzare interi comparti economici o territoriali».
Una mafia lontana da quella che abbiamo conosciuto.
«Non si può capire che cosa è oggi la mafia se si continua a guardarla con gli occhi della Prima Repubblica e con un’ottica regionalistica. Tutti i paradigmi del passato stanno diventando obsoleti, perché è completamente mutato lo scenario socio-economico nel quale le mafie operano e di cui sono una componente organica».
Mondo legale e mondo illegale che si avvicinano sempre di più confondendosi?
«È dal 2014 che l’Unione Europea ha stabilito che, per calcolare il Pil, il prodotto interno lordo degli Stati dell’Europa, bisogna inserire anche i fatturati dello stupefacente, della prostituzione e del contrabbando. Quando calcoliamo il Pil nazionale, da due anni inseriamo per l’Italia anche i 12 miliardi di euro del fatturato degli stupefacenti e i circa 3 miliardi e mezzo di euro di quello della prostituzione».
Quali sono le cause che hanno portato grandi cambiamenti nel mondo criminale?
«Nella prima Repubblica la politica governava l’economia, la spesa pubblica era una risorsa potenzialmente illimitata e il Paese aveva ancora la sovranità monetaria. Da qui, derivava una determinata tipologia di rapporti di scambio e di convivenza tra mafia- politica- economia. La mafia offriva il suo sostegno elettorale ai partiti governativi che, in cambio, garantivano la compartecipazione alla spartizione della spesa pubblica e protezioni per il rischio penale derivante dall’attività predatoria sui territori. Il rapporto era “democratico”, nel senso che qualsiasi mafioso di medio livello poteva interfacciarsi con politici e amministratori locali che gestivano in autonomia la spesa pubblica».
E oggi invece?
«Oggi è l’economia che governa la politica, i centri decisionali si sono verticalizzati e spesso sono sovranazionali, la spesa pubblica è divenuta una risorsa strutturalmente contingentata perché, con l’euro, il Paese ha perduto la sovranità monetaria. Gli appalti pubblici si sono ridotti in percentuali elevatissime. Tutto ciò sta scardinando la tipologia di rapporti preesistenti con la mafia. I mediatori politici hanno sempre meno da offrire in cambio».
E la mafia come sopravvive a questa crisi profonda?
«Dalle intercettazioni emerge la difficoltà dei mafiosi popolari persino di garantire le spese per il mantenimento delle famiglie dei carcerati e per quelle legali. Le attività criminali predatorie tradizionali proseguono per forza d’inerzia su territori sempre più impoveriti».
Altre associazioni criminali in questi anni si sono organizzate diversamente, la camorra e la ‘ndrangheta per esempio.
«In Sicilia ancora esiste una struttura mafiosa che tiene l’ordine, anche se in alcune zone si sta sfilacciando. In Campania, dove quella struttura d’ordine non esiste, i vuoti di potere determinati dagli arresti hanno scatenato una guerra per bande. Interi quartieri di Napoli, come le favelas sudamericane, sono isole di un’economia criminale della sussistenza che coinvolge migliaia di nuclei familiari».
Poi c’è la mafia che ha invaso le regioni da Roma in su.
«Lì operano componenti evolute delle mafie – soprattutto la ‘ndrangheta quelle che non solo si sono de-localizzate ma si sono anche internazionalizzate. È la mafia mercatista, che cavalca la logica del mercato. Offre quello che chiedono migliaia di persone normali: stupefacenti, prostitute, falsi griffati. E ci sono anche tantissimi imprenditori ai quali queste mafie offrono servizi che abbattono i costi o incrementano i profitti, come lo smaltimento illegale di rifiuti o la fornitura di manodopera sottopagata o schiavizzata. Questa è la cosiddetta mafia silenziosa che con i territori non ha un rapporto aggressivo ma collusivo. La violenza viene utilizzata solo se è indispensabile. È uno spaccato che emerge da tante inchieste, come quella recente sulla colonizzazione mafiosa di intere aree dell’Emilia Romagna».
Uno scenario cupo.
«È solo il più visibile. Poi ve n’è un altro più sofisticato, trasversale ai territori, prodotto dalla trasformazione strutturale del modo di essere del potere nella società. Dopo la chiusura della parentesi democratica del Novecento, che aveva redistribuito ricchezza e potere, è in corso un ritorno alla società delle élite che concentra ricchezza nel 10% della popolazione. Questo fenomeno attraversa anche il mondo criminale. Il ceto medio delle mafie tradizionali sta subendo la stessa parabola discendente del ceto medio legale. La “democrazia” è finita anche dentro la mafia».
Chi è aristocrazia mafiosa in Sicilia?
«Matteo Messina Denaro».
Come si fronteggiano queste élite criminali?
«Le categorie penali del concorso esterno e dell’associazione mafiosa mostrano la corda. Non si sa più se si tratti di concorso esterno di colletti bianchi negli affari delle mafie o, viceversa, di concorso di aristocrazie mafiose negli affari loschi di strutture criminali che la stampa definisce cricche, comitati d’affari, P3 o P4. Per fronteggiare il nuovo che avanza serve un salto culturale, come quello compiuto da Falcone 30 e passa anni fa, quando mostrò al Paese la realtà della mafia della Prima Repubblica».
 
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Cosa è la mafia oggi?
«È cambiata ma è cambiata meno del mondo che ha intorno. Ed è nascosta come sempre nelle pieghe della mala politica e della mala economia. Certo, nell’era corleonese si è clamorosamente palesata con i suoi misfatti. Ma quell’era è finita, la guerra non c’è più. La Repubblica italiana è uscita da quella stagione di emergenza estrema».
Professore Salvatore Lupo, è almeno dal 2000 che tutti continuano a ripetere che la mafia si è “inabissata”, che è “invisibile”.
«Nel corso della sua lunga storia, la mafia ha più che altro cercato di mantenersi coperta. Ha sempre saputo che, se le autorità o l’opinione pubblica non la cercano, non la vedono neanche. A meno che non si riveli essa stessa con le armi o con le bombe, come ha fatto per un ventennio. Oggi semmai nessuno ci può più dire che la mafia non esiste. In passato tanti siciliani, nei ranghi della classe dirigente ma non solo, l’hanno fatto. Magari per pruderie regionalistica, perché le polemiche sul tema suonavano come un’offesa alla sicilianità. La fine di questa cultura omertosa è stata anche causata da una repressione molto forte a partire dalla metà degli anni ’80. Si sono segnati risultati senza precedenti anche rispetto al molto celebrato, ma in realtà blando, periodo fascista. Lo dico da storico che ha studiato quelle vicende a fondo: la maggior parte degli imputati dei processi del ’28 e del ’29 furono oggetto di leggere condanne, ed erano già fuori nel ’31 per amnistia, qualcuno andò al confino ed era già al lavoro già negli anni ‘30».
Questa sua affermazione va dritta al cuore del problema. Da più parti si dice che dopo le stragi del ’92 la mafia sia stata colpita ma solo nella sua struttura militare, non in quella “politica”. È andata così?
«Non mi pare che nella considerazione di questo fenomeno possa essere introdotta una distinzione così netta. La mafia è un incrocio di criminalità violenta, politica e affari. Lo era tra ‘800 e ‘900, quando i mafiosi erano uomini di fiducia dei proprietari fondiari. “Facinorosi della classe media”, li chiamava Franchetti nel 1877. Lo era anche dopo, quando i mafiosi servivano da terminale periferico di macchine politico- elettorali. Non possiamo insistere su schemi dicotomici come quelli cui lei accennava. Riveleremmo un’incapacità di fondo di capire di che si tratta».
Ci spieghi lei di che si tratta.
«La mafia è stata sempre un potere minore rispetto a quello ufficiale dello Stato e delle élite sociali. Dobbiamo considerare l’era dei Corleonesi come una parentesi nella storia della mafia. La stagione del terrorismo mafioso è terminata, spero definitivamente. Io non posso certo prevedere il futuro, però non ci sono elementi che indichino ritorni a quel passato tragico, ve ne sono invece che indicano il contrario. Quella guerra è finita. Il numero degli omicidi in questo Paese è drasticamente diminuito, il Mezzogiorno sta nella media nazionale, in Sicilia si ammazza meno che in Lombardia. Se penso al 1991...».
Perché proprio al 1991?
«Perché quell’anno, in Italia, c’è stato il picco degli omicidi per cause riconducibili alla criminalità organizzata: 700. Praticamente quasi il doppio dei morti di violenza politica – 490 – registrati in tutti gli anni di piombo che vanno dal 1969 al 1985. L’impatto delle mafie sulla storia generale italiana è stato enorme. Poi lo Stato ha reagito».
Dunque, secondo lei, lo Stato ha vinto e la mafia ha perso. Molti però dicono che c’è una nuova mafia...
«Sì, e allora? Questo non cancella ciò che è avvenuto: uno scontro tremendo conclusosi con l’annientamento del gruppo di comando di Cosa nostra. Si tratta di una vittoria transitoria? Ciò non toglie che sia storicamente molto rilevante. Niente trionfalismi, certo. Lo stato di salute cagionevole (uso un eufemismo) della democrazia e della morale pubblica in Italia, e in particolare in Sicilia, esclude rivolgimenti palingenetici. Però non è giusto né utile dimenticare che questa nostra epoca è diversa da quella sanguinosa di 35 anni fa. C’è un pezzo di opinione pubblica che ragiona come se quei fatti tragici fossero avvenuti ieri, anzi che si sente come bloccata in quel passato. Vogliamo ammetterlo che tanti sforzi, tanti sacrifici – anche della vita – sono serviti a qualcosa? È paradossale e frustrante che uno dei pochi risultati conseguiti in questo Paese non sia riconosciuto».
Chiaro, i fatti sono fatti: ma perché c’è questo rifiuto?
«Perché l’Antimafia più generosa e ideologica non si accontenta di sapere Riina, Provenzano e soci in galera. Il risultato oggi, una volta ottenuto, appare piccolo: ma non così appariva quando sembrava impossibile conseguirlo, nel 1985 o nel 1991! Perché resta inappagata la nostra esigenza di buona politica e buona economia, e non troviamo un altro bersaglio che sia adeguato al nostro tempo».
Le voci dal di dentro, già dopo il 1992, svelavano “Cose Mondiali”...
«I sistemi criminali di scala planetaria e senza volto, il complotto universale? Lasciamo perdere. Troppi osservatori ed interpreti, anche in buona fede, cadono nel mito dell’onnipotenza della mafia. Troppi danno credito ai mafiosi più o meno pentiti, che si raccontano come se ogni essere umano e ogni forza istituzionale devono essere sempre, per forza, “nelle loro mani”. Questa retorica rischia di paralizzarci. La verità è che ogni mafia può essere battuta e, in gran parte, quella che abbiamo imparato a chiamare Cosa nostra è stata battuta. Fermo restando che, purtroppo, ogni vittoria può di seguito trasformarsi in sconfitta».
Che fine hanno fatto i patrimoni accumulati con i grandi traffici?
«Da qualche parte saranno. E saranno attivi. Come molti degli imprenditori, dei professionisti, e naturalmente dei politici, già interni alla rete mafiosa. Attivi e più liberi di muoversi in proprio, ora che i gruppi di fuoco corleonesi non li tengono più sotto il mirino. Ma non è una nuova mafia. Diciamo meglio che si tratta dei residui della vecchia».
Come al solito bisogna seguire l’odore dei soldi.
«E bisogna seguire anche le tracce dei trasformismi. In una ricerca sull’economia criminale coordinata dal mio collega Rocco Sciarrone dal titolo Alleanze nell’ombra, ad esempio, scopriamo che tutte le imprese top della connection mafiosa in provincia di Palermo hanno aderito ad associazioni antiracket o antimafia».
Cosa è la mafia oggi?
«È cambiata ma è cambiata meno del mondo che ha intorno. Ed è nascosta come sempre nelle pieghe della mala politica e della mala economia. Certo, nell’era corleonese si è clamorosamente palesata con i suoi misfatti. Ma quell’era è finita, la guerra non c’è più. La Repubblica italiana è uscita da quella stagione di emergenza estrema».
Professore Salvatore Lupo, è almeno dal 2000 che tutti continuano a ripetere che la mafia si è “inabissata”, che è “invisibile”.
«Nel corso della sua lunga storia, la mafia ha più che altro cercato di mantenersi coperta. Ha sempre saputo che, se le autorità o l’opinione pubblica non la cercano, non la vedono neanche. A meno che non si riveli essa stessa con le armi o con le bombe, come ha fatto per un ventennio. Oggi semmai nessuno ci può più dire che la mafia non esiste. In passato tanti siciliani, nei ranghi della classe dirigente ma non solo, l’hanno fatto. Magari per pruderie regionalistica, perché le polemiche sul tema suonavano come un’offesa alla sicilianità. La fine di questa cultura omertosa è stata anche causata da una repressione molto forte a partire dalla metà degli anni ’80. Si sono segnati risultati senza precedenti anche rispetto al molto celebrato, ma in realtà blando, periodo fascista. Lo dico da storico che ha studiato quelle vicende a fondo: la maggior parte degli imputati dei processi del ’28 e del ’29 furono oggetto di leggere condanne, ed erano già fuori nel ’31 per amnistia, qualcuno andò al confino ed era già al lavoro già negli anni ‘30».
Questa sua affermazione va dritta al cuore del problema. Da più parti si dice che dopo le stragi del ’92 la mafia sia stata colpita ma solo nella sua struttura militare, non in quella “politica”. È andata così?
«Non mi pare che nella considerazione di questo fenomeno possa essere introdotta una distinzione così netta. La mafia è un incrocio di criminalità violenta, politica e affari. Lo era tra ‘800 e ‘900, quando i mafiosi erano uomini di fiducia dei proprietari fondiari. “Facinorosi della classe media”, li chiamava Franchetti nel 1877. Lo era anche dopo, quando i mafiosi servivano da terminale periferico di macchine politico- elettorali. Non possiamo insistere su schemi dicotomici come quelli cui lei accennava. Riveleremmo un’incapacità di fondo di capire di che si tratta».
Ci spieghi lei di che si tratta.
«La mafia è stata sempre un potere minore rispetto a quello ufficiale dello Stato e delle élite sociali. Dobbiamo considerare l’era dei Corleonesi come una parentesi nella storia della mafia. La stagione del terrorismo mafioso è terminata, spero definitivamente. Io non posso certo prevedere il futuro, però non ci sono elementi che indichino ritorni a quel passato tragico, ve ne sono invece che indicano il contrario. Quella guerra è finita. Il numero degli omicidi in questo Paese è drasticamente diminuito, il Mezzogiorno sta nella media nazionale, in Sicilia si ammazza meno che in Lombardia. Se penso al 1991...».
Perché proprio al 1991?
«Perché quell’anno, in Italia, c’è stato il picco degli omicidi per cause riconducibili alla criminalità organizzata: 700. Praticamente quasi il doppio dei morti di violenza politica – 490 – registrati in tutti gli anni di piombo che vanno dal 1969 al 1985. L’impatto delle mafie sulla storia generale italiana è stato enorme. Poi lo Stato ha reagito».
Dunque, secondo lei, lo Stato ha vinto e la mafia ha perso. Molti però dicono che c’è una nuova mafia...
«Sì, e allora? Questo non cancella ciò che è avvenuto: uno scontro tremendo conclusosi con l’annientamento del gruppo di comando di Cosa nostra. Si tratta di una vittoria transitoria? Ciò non toglie che sia storicamente molto rilevante. Niente trionfalismi, certo. Lo stato di salute cagionevole (uso un eufemismo) della democrazia e della morale pubblica in Italia, e in particolare in Sicilia, esclude rivolgimenti palingenetici. Però non è giusto né utile dimenticare che questa nostra epoca è diversa da quella sanguinosa di 35 anni fa. C’è un pezzo di opinione pubblica che ragiona come se quei fatti tragici fossero avvenuti ieri, anzi che si sente come bloccata in quel passato. Vogliamo ammetterlo che tanti sforzi, tanti sacrifici – anche della vita – sono serviti a qualcosa? È paradossale e frustrante che uno dei pochi risultati conseguiti in questo Paese non sia riconosciuto».
Chiaro, i fatti sono fatti: ma perché c’è questo rifiuto?
«Perché l’Antimafia più generosa e ideologica non si accontenta di sapere Riina, Provenzano e soci in galera. Il risultato oggi, una volta ottenuto, appare piccolo: ma non così appariva quando sembrava impossibile conseguirlo, nel 1985 o nel 1991! Perché resta inappagata la nostra esigenza di buona politica e buona economia, e non troviamo un altro bersaglio che sia adeguato al nostro tempo».
Le voci dal di dentro, già dopo il 1992, svelavano “Cose Mondiali”...
«I sistemi criminali di scala planetaria e senza volto, il complotto universale? Lasciamo perdere. Troppi osservatori ed interpreti, anche in buona fede, cadono nel mito dell’onnipotenza della mafia. Troppi danno credito ai mafiosi più o meno pentiti, che si raccontano come se ogni essere umano e ogni forza istituzionale devono essere sempre, per forza, “nelle loro mani”. Questa retorica rischia di paralizzarci. La verità è che ogni mafia può essere battuta e, in gran parte, quella che abbiamo imparato a chiamare Cosa nostra è stata battuta. Fermo restando che, purtroppo, ogni vittoria può di seguito trasformarsi in sconfitta».
Che fine hanno fatto i patrimoni accumulati con i grandi traffici?
«Da qualche parte saranno. E saranno attivi. Come molti degli imprenditori, dei professionisti, e naturalmente dei politici, già interni alla rete mafiosa. Attivi e più liberi di muoversi in proprio, ora che i gruppi di fuoco corleonesi non li tengono più sotto il mirino. Ma non è una nuova mafia. Diciamo meglio che si tratta dei residui della vecchia».
Come al solito bisogna seguire l’odore dei soldi.
«E bisogna seguire anche le tracce dei trasformismi. In una ricerca sull’economia criminale coordinata dal mio collega Rocco Sciarrone dal titolo Alleanze nell’ombra, ad esempio, scopriamo che tutte le imprese top della connection mafiosa in provincia di Palermo hanno aderito ad associazioni antiracket o antimafia».