Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  febbraio 28 Domenica calendario

Leopardi e Manzoni al lavoro. Due geni molto diversi

Una «ferrata» disciplina. È il metodo di ogni poeta che si rispetti, ma a maggior ragione è la regola che si impone Giacomo Leopardi nel comporre il suo primo libro poetico, le Canzoni del 1824. L’esame puntuale delle carte, tra filologia e analisi stilistica, ci permette di entrare nel suo laboratorio, nella materia viva di una creatura testuale che sta per nascere: è ciò che si propone Paola Italia, docente di Letteratura italiana alla Sapienza di Roma, con il saggio intitolato Il metodo di Leopardi (Carocci), accompagnandoci tra «scartafacci» pieni di annotazioni e di varianti, in cui si depositano ripensamenti, delusioni, slanci, impuntature, scoperte, persino euforie: il tutto finalizzato a raggiungere quella che Leopardi chiama una «minutissima perfezione». È un lavoro che risente della lezione filologica di maestri come Dante Isella e Franco Gavazzeni. Al primo si deve, tra l’altro, l’edizione critica del Fermo e Lucia, al secondo l’edizione dei Canti leopardiani. E proprio in un confronto tra i laboratori dei due massimi scrittori ottocenteschi culmina il percorso di Paola Italia.
Un libro sul metodo di lavoro di Leopardi nella composizione delle «Canzoni»: che differenze di elaborazione si riscontrano rispetto alle opere precedenti e successive?
«I manoscritti che testimoniano l’elaborazione delle Canzoni, il primo libro di poesie di Leopardi pubblicato nel 1824 a Bologna, meritano uno studio specifico perché sono un documento eccezionale di come Leopardi sia riuscito a fondare una nuova poesia, in un periodo per lui sommamente “antipoetico”, rinnovando la lingua di classicisti come Monti (e anche del suo mentore, Pietro Giordani) non contro, ma attraverso la tradizione poetica. I manoscritti delle Canzoni, infatti, diversamente da quelli degli Idilli (come L’I nfinito ) e dei Canti (come A Silvia ), sono ricchissimi non solo di varianti, ma anche di fonti letterarie, di “prove” dell’uso che altri poeti avevano fatto dei vocaboli rari e “pellegrini”, cioè “fuori dall’uso”, usati da Leopardi – come procombere, smozzicare o sollazzo – condannati dall’Accademia della Crusca, ma autorizzati dalla tradizione poetica».
Lei accenna a varie «campagne correttorie»: che cosa intende? C’è una vera strategia?
«Intanto dobbiamo ricordare che di Leopardi non possediamo prime stesure, ma solo belle copie. Che però sono circondate, quasi assediate da correzioni, note, glosse. Scritte in diversi momenti e con penne diverse. È stato Franco Gavazzeni, con cui ho lavorato all’edizione critica dei Canti pubblicata nel 2006, a capire, sviluppando alcune intuizioni di Contini e Domenico De Robertis, che tra le varianti depositate sui manoscritti delle Canzoni, a volte così fitte da ricordare “campagne” militari, ve ne erano alcune che interagivano con il testo. Leopardi, cioè, copiava sia la lezione definitiva che le varianti apparentemente “scartate”, che erano invece lezioni “vive”, perché potevano successivamente essere recuperate e dare vita a nuova poesia. Erano varianti così vitali che Leopardi portò quelle poesie sempre con sé, fino a Napoli (dove i manoscritti sono attualmente conservati), anche se le poesie erano già state pubblicate».
La «minutissima perfezione» cui Leopardi dice di aspirare in che direzione veniva intesa?
«Le carte delle Canzoni sono sudatissime. Sono crivellate, perché Leopardi sapeva che si doveva confrontare con un mondo letterario potenzialmente ostile alle novità della sua poesia e sceglieva un vocabolo solo dopo averlo confrontato con moltissimi altri, dopo avere anche annotato quale tra gli autori della tradizione l’aveva usato prima di lui. Perché sapeva che la poesia nasce sempre da altra poesia e che anche una virgola, una preposizione sono importanti, in quanto possono cambiare non solo il senso del testo, ma il suo suono, che non è meno importante del senso».
Qual è il testo di Leopardi più tormentato? Quante stesure?
«Tutti i testi delle Canzoni sono fitti di varianti, sia correzioni vere e proprie che note sulle fonti linguistiche utilizzate, come l’ Ultimo Canto di Saffo, per esempio, dove Leopardi annota anche di avere scritto il testo in soli 7 giorni... A ogni nuova lettura, inoltre, aggiungeva, con penne diverse, nuovi usi e nuove fonti, per allargare i confini della poesia. Un testo particolare però è Alla sua Donna, dove si trovano moltissime varianti, ma non ci sono più note linguistiche, perché Leopardi, tornato dal viaggio a Roma del 1823, deluso dal mondo letterario, capisce che la “minutissima perfezione” nello scrivere che aveva perseguito negli anni precedenti non sarebbe stata capita da nessuno. Ma, invece di smettere di scrivere, compone un capolavoro come Alla sua Donna».
Perché mettere a confronto il metodo leopardiano con quello di Manzoni? Lei sostiene che sono l’opposto. Come lavorava Manzoni?
«Sono metodi molto diversi, anche perché di Manzoni ci sono rimaste le prime stesure, illuminanti. Manzoni, a differenza di Leopardi, non usa il manoscritto come una tavolozza di prove d’autore. Tutto parte da un’idea, un’immagine naturale (il famoso “ramo del lago di Como”) o storica (il “principe di Condé”, all’inizio del capitolo II), e procede con una progressiva “messa a fuoco” dell’oggetto. Manzoni non appunta le fonti letterarie e non lascia varianti alternative, tranne quando non sa ancora quale sarà l’espressione effettivamente corrispondente all’uso. Divide la pagina in due colonne e ne lascia una libera per le correzioni, come fanno gli studenti a scuola. Ma il correttore è lui e finirà, almeno per il primo tomo del Fermo e Lucia, come si vede bene ad esempio, all’inizio del Capitolo III, per riscrivere tutto il testo...
Sono lo specchio di due poetiche contrapposte: il vago vs il definito...
«Certo. Per Leopardi la parola è vera, cioè poetica quando è “vaga”, “indefinita”, “fuori dall’uso”, mentre per Manzoni la parola è vera quando corrisponde all’unica lingua vera, che è la lingua dell’uso. E per far parlare i suoi personaggi con una lingua vera (o verosimile, in grado cioè di essere compresa da tutti i lettori), corregge il romanzo per quasi vent’anni con un “eterno lavoro” non meno minuzioso di quello di Leopardi. Lavorano, tra l’altro, negli stessi anni e spesso con gli stessi strumenti (come gli studi linguistici di Vincenzo Monti o il Vocabolario della Crusca), ma per raggiungere obiettivi opposti. E, alla fine, lasceranno entrambi i libri, la “letteratura”: Leopardi decide di pubblicare gli Idilli, inventa una nuova lingua della poesia e abbandona gli studi linguistici; Manzoni abbandona i vocabolari e comincia a “intervistare” le persone: gli amici fiorentini, la governante Emilia Luti».
Come può un’edizione farci entrare dentro la genesi dei testi e dentro i laboratori dei grandi scrittori?
«Un’edizione critica è come una Google Map. Ci dà la cartografia del territorio su cui l’autore agisce e lascia un segno della sua creatività. Ma, a differenza di una carta geografica, che ha solo due dimensioni, l’edizione critica ha in sé una terza dimensione, che è quella del tempo, perché rappresenta la genesi dei testi dalla prima stesura alla versione finale. L’importante, come ha detto per primo Dante Isella, il fondatore della filologia d’autore, è che non sia una fotografia del manoscritto, un’immagine statica, ma una rappresentazione delle sue fasi di sviluppo. E che ogni fase sia confrontabile con la precedente e la seguente, per poterle interpretare nella loro evoluzione e tracciare così un diagramma dello stile dell’autore».
Qual è il fulcro delle polemiche nate attorno alla variantistica tra Croce, De Robertis e Contini?
«Quando Contini nel 1937 fonda la “critica delle varianti”, rivoluziona il modo di interpretare i testi perché li considera organismi vivi, dinamici, in movimento. Non oggetti fissi e immobili nell’ultima versione a stampa stabilita dal loro autore. Era una rivoluzione copernicana che non implicava il disconoscimento del magistero di Croce, per cui lo studio delle correzioni, degli “scartafacci”, era inutile perché il valore dell’opera, la sua “poesia” esisteva solo nell’ultima stampa. Il principio di Contini rendeva inevitabile un suo superamento. De Robertis (Giuseppe, non il figlio Domenico che abbiamo ricordato prima) aveva detto che fare critica era un “capire distinguendo”, Contini aveva proseguito dicendo che non si poteva distinguere se non tra elementi diversi. Ma che la poesia si poteva riconoscere anche tra i “frammenti” degli scartafacci, non solo, come voleva Croce, nel prodotto finito».