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 2016  febbraio 29 Lunedì calendario

Quattro chiacchiere con Federico Roncoroni, autore della più nota grammatica della lingua italiana

Libri, donne e gatti sono le sue passioni. Di opere, tra saggi, traduzioni dal latino, antologie, curatele, manuali scolastici, romanzi, raccolte di racconti e poesie, plaquette, ne ha scritte, magari firmandole con uno pseudonimo, una settantina; e in mezzo ai volumi ci vive letteralmente: il suo appartamento nel centro di Como ne è tutto foderato e già all’ingresso si viene accolti da scatoloni ancora intonsi da poco arrivati in omaggio dalle case editrici. Signore e signorine amate sono state certamente di più, ma un gentiluomo non si occupa di contabilità. I felini, dopo Micio Macio, morto di recente a 16 anni, non passeggiano più per i corridoi, tuttavia aleggiano ovunque sotto forma di fotografie o di ninnoli ornamentali.
Difficile fare una classifica («Non possono esistere le une senza gli altri, l’amore è lo stesso: c’è qualcosa che non va?»), anche perché nel suo ultimo libro – ma già nel Sillabario della memoria – tutto si tiene: donne, libri e gatti. In Parole, Un dizionario privato (A. Mondadori Scuola), raccolta di termini che più hanno contribuito alla sua formazione intellettuale e alla sua educazione sentimentale, Federico Roncoroni, autore della più nota Grammatica della lingua italiana (Mondadori) e del Manuale di scrittura non creativa (BUR), amico e collaboratore di Piero Chiara, dal cui archivio tira fuori con regolarità affascinanti chicche, spesso e volentieri parte dalle parole per ricordare le fanciulle che le usavano o le abitudini del suo gatto.
Qual è la parola a cui è più affezionato?
«Tra quelle raccontate nel libro direi “pandiculazione”. Una parola che permette di fare una reductio ad unum di una serie di gesti – stiracchiare goduriosamente braccia e gambe e sbadigliare appena prima di alzarsi dal letto o subito dopo – che mi sono sempre chiesto come poter chiamare. Gesti quanto mai sexy e piacevoli da guardare nelle giovani donne e nei mici... E dal punto di vista linguistico per me è stato bello scoprirla, perché è una parola che ha dato un nome a una cosa che conoscevo, ma non sapevo come definire».
E la più odiata?
«Tra le recenti, in generale, non sopporto “selfie”. Come mi danno fastidio gli accenti sbagliati e le parole latine pronunciate all’inglese, tipo plus massacrato in “plas”. Ormai c’è la mania di usare parole inglesi al posto di quelle italiane (Job Act, Stepchild Adoption...). E così non ci si capisce più niente».
Cos’è? La tipica esterofilia italiana?
«È provincialismo, esibizionismo, volontà di dare spessore a cose che non lo hanno e così le si traveste per mascherarne l’inconsistenza. Io non sono certo un talebano della purezza linguistica: quando un testo è comprensibile va sempre bene, perché in fondo lo scopo che si persegue quando si parla è quello di farsi capire. Ma ci sono dei limiti».
L’ossessione per l’inglese mi sembra assurda, specie se consideriamo che i ragazzi arrivano alle superiori senza sapere neppure l’italiano. La Francia si comporta diversamente, noi caliamo le braghe...
«I francesi sanno difendere meglio di noi il proprio patrimonio lessicale, e quando studiano le lingue straniere lo fanno per davvero: noi abbiamo un’apertura indiscriminata verso l’inglese, però lo insegniamo male. Quanto poi alla conoscenza della nostra lingua siamo a livelli molto bassi. Oggi il patrimonio lessicale di uno studente di buon livello è, se va bene, di 1800-2000 parole, ma scende a 600-700 tra quelli meno impegnati: un livello di pura sussistenza. E se capiscono quell’esiguo numero di parole, ne utilizzano anche meno».
Che ne pensa della scuola di oggi?
«È come con la Nazionale. Come tutti si sentono ct, capaci di mettere insieme la formazione vincente, tutti si credono esperti nel campo delle riforme scolastiche. Gli unici a non avere voce in capitolo sono gli insegnanti, purtroppo, che stanno sulle barricate, in mezzo ad adolescenti tentati da mille alternative. Una volta la scuola era l’unica agenzia formativa, insieme alla famiglia, e forniva una discreta base culturale. Ora esistono numerosi altri mezzi di acculturamento più comodi e più semplici dello studio, anche se non altrettanto formativi. D’altra parte la nostra classe politica poco o nulla si occupa della scuola. Anche i tanto strombazzati provvedimenti relativi alla cosiddetta “Buona scuola”, riguardano problemi certo importanti come l’assunzione dei precari, la messa in sicurezza degli edifici e simili, ma non hanno investito né i programmi né la didattica».
Intanto stanno distruggendo il Liceo Classico.
«Bisognerebbe prendere atto che ormai è un percorso di studi elitario, per il quale, con l’abolizione del latino dalle medie, sono venute meno le basi di partenza, e riservarlo quindi a corsi di specializzazione. Inutile illudersi di potere farne ancora le basi di una formazione comune. Del resto, i genitori sono i primi a non volere più studi troppo impegnativi per i figli: preferiscono che i loro cuccioli il pomeriggio facciano nuoto, danza o judo».
Ma come si fa a rendere piacevole lo studio di Dante o Manzoni?
«Dipende tutto dal carisma dell’insegnante. Se il professore è convinto della “merce” che vende, se la conosce e ama davvero, se la presenta come qualcosa in cui crede veramente e se riesce a coinvolgere anche emotivamente i suoi interlocutori, allora gli studenti lo seguono. Inoltre è fondamentale il rapporto col testo: bisogna far leggere i versi e insegnare a capirli, poi ci sarà spazio anche per le considerazioni critiche».
Perché tutti scrivono poesie e nessuno le legge?
«Perché siamo un popolo di cuochi e di poeti. E la poesia è una malattia che colpisce sin dalla più tenera età. Per gli adolescenti è il primo e il più immediato modo di comunicare il loro mondo interiore e scrivono migliaia di versi perché pensano che la poesia altro non sia che un discorso in cui si va a capo prima della fine della riga, libero da vincoli di qualsiasi tipo, ritmici, sintattici e purtroppo anche ortografici. Poi c’è il grande equivoco di considerare poesia le canzoni dei cantautori, come De André, che non sono poeti: senza la musica i loro versi non stanno in piedi. La vera poesia di fatto è difficile, non solo da scrivere ma anche da leggere, e non alludo solo a quella di Andrea Zanzotto».
Lei perché ha lasciato la scuola?
«L’ho amata molto e l’ho lasciata quando ho scoperto che avevo dato tutto quello che potevo. Mi è mancata a lungo, ma era una scuola diversa, la mia. Ora è un disastro. Le mie ex alunne che insegnano mi dipingono un quadro inquietante: se un terzo degli alunni ti segue è un successo, agli altri, semplicemente, non gliene frega nulla di nulla».
E così ci ritroviamo Fabio Volo o le Cinquanta sfumature in testa alle classifiche dei libri più venduti.
«Io non sono snob: leggo tutto, anche Volo e la James, perché, mi dico, se un libro vende, ci sarà un motivo, e io voglio conoscerlo. Volo dimostra di saper toccare argomenti alla portata delle aspirazioni sentimentali di molti, utilizzando un numero assai limitato di parole. Le Sfumature poi, ben pianificate a tavolino, vanno incontro ai bisogni di chi prima leggeva i romanzi Harmony o i romanzi rosa di Liala: rispetto a quelli sono solo aggiornate ai tempi che viviamo, con il pepe dell’erotismo. Eppure, secondo me, meno della metà di chi ha acquistato i libri della trilogia della James poi li ha letti davvero. La gente li compra per moda, sull’onda della pubblicità».
Come è accaduto al Nome della rosa dell’appena scomparso Umberto Eco…
 «Eh sì. Uno dei pochi casi di film più bello del romanzo. Comunque, l’Eco destinato a rimanere è quello del Diario minimo e del Trattato di semiotica generale, più che il romanziere».
I vertici del Novecento italiano sono D’Annunzio e Gadda?
«L’Alcyone di D’Annunzio sì, di sicuro. Tutti hanno dovuto fare i conti con lui, anche se magari per criticarlo. Gadda no: è troppo complicato, troppo ricco e difficile. Io ho amato molto, da ragazzo, Vasco Pratolini, poi Dino Buzzati e il Cassola de La ragazza di Bube. E ovviamente Chiara. Poi mi sono un po’ staccato dalla letteratura italiana, anche perché ho scoperto autori stranieri come García Márquez, Philip Roth, Ian McEwan e Abraham Yehoshua. Adesso amo e leggo anche Ken Follett, John Grisham, Patricia Cornwell e compagnia, autori che mi hanno fatto ritrovare il piacere di aspettare che la sera venga l’ora di riprendere in mano il romanzo, per andare avanti. Ero stanco di leggere sempre testi “seri”: devo confessare che ho iniziato invano almeno cinque volte La coscienza di Zeno e dieci Alla ricerca del tempo perduto e l’Ulisse».
Che ne pensa di Mondazzoli?
«Una fusione inevitabile per stare a galla, per stare sul mercato, e, direi, per salvare il Corriere della Sera. Ho vissuto a lungo negli Usa e là è stato sin dagli anni ’90 un fatto normale. Quanto al rischio di una perdita di identità della Rizzoli, è un problema che non sussiste, perché è nell’interesse di entrambi i gruppi tenere ben distinte le linee editoriali. In Italia è, in proposito, significativo il caso dell’editoria scolastica: la Mondadori ha da tempo assorbito Le Monnier, Minerva Italica e Einaudi Scuola, e la Zanichelli ha comprato la Loesher, ma non per questo i vari marchi hanno perso la loro peculiare fisionomia».
Dario Fo ha rifiutato il Premio Chiara!
«Il comitato del Premio Chiara alla Carriera glielo ha proposto, anche come conterraneo di Chiara, ma, dopo aver rinviato a lungo una decisione, il suo staff – parlare direttamente con Fo è stato impossibile – ha detto che Fo, dopo il Nobel, non accettava altri premi. Non ho controllato se è proprio vero... Ma che dire?».
Che lo scandalo è stato dargli il Nobel.
«Non lo capisco io quello che scrive, figuriamoci gli svedesi… È un mistero. Certo, mi dicono che conta molto preparare il terreno per ora e per tempo, farsi tradurre nei Paesi scandinavi, andarvi a tenere conferenze».
Mi dice un aforisma fulminante?
«Vado sul classico: “II cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce” (Blaise Pascal). Ma ne aggiungo uno di mio padre: “Tutti i veleni sono amari, tranne lo zucchero”. Va trasferito sul piano dei rapporti umani e fa capire che le persone più pericolose sono quelle di cui ti fidi, che si presentano con volto sorridente e modi amabili e poi ti umiliano e distruggono».