Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  febbraio 29 Lunedì calendario

I Wagner, una famiglia piuttosto nazista

Siamo alla fine della Seconda guerra mondiale e la scena è questa: il mitico teatro tedesco di Bayreuth, sede dell’ortodossia wagneriana, è chiuso. Villa Wahnfried, storica casa dei Wagner, è stata semidistrutta dalla Raf inglese ed è stata occupata da un circolo di americani che la sera ballano il boogie-woogie. Quasi tutta Bayreuth fu annientata dai bombardamenti, e, stando alla leggenda, il teatro wagneriano fu risparmiato solo perché scambiato per una stazione ferroviaria.
Winifred Wagner, moglie dell’unico figlio di Richard Wagner, padrona assoluta del culto wagneriano, dovette passare sotto il giogo di un tribunale di denazistificazione tedesco. Lei aveva indubbiamente fatto propaganda per il nazismo e ne aveva ricavato benefici economici enormi, non disdegnando il distintivo d’oro del Partito e regali personali del Führer: ma fu inclusa tra i colpevoli minori. Lei testimoniò anche a Norimberga, dove le toccò rispondere anche a domande imbarazzanti sul suo rapporto con Adolf Hitler. Ma fu deliziosamente ambigua: «Non so se mi si comprenderà: era una grande amicizia, un’amicizia come un grande amore».
E si giunge all’infanzia di Gottfried, pronipote di Richard Wagner, l’unico che aveva il naso aquilino del bisnonno. Fu atipico da subito. Gli rimase impresso, per cominciare, un viaggio familiare a Barcellona per assistere a una Valchiria: ricordava quei brindisi dedicati a un certo Francisco – o Franco, non capì bene – con tutti a gridare la parola «Usa». Mentre la nonna, Winifred, ripeteva che gli spagnoli avevano sostenuto magnificamente i tedeschi nella lotta contro «i bolscevichi». Nei cinegiornali, a scuola, aveva già visto dei filmati con dei soldati che facevano il passo dell’oca: e c’era un sottofondo musicale che gli era parso di riconoscere.
Poi la svolta. Suo padre gli aveva tassativamente proibito di giocare nel Festspielhaus, il teatro. Però Gottfried riuscì a procurarsi un passepartout che apriva tutte le porte, così da poter accedere anche al vecchio Malersaal, la stanza segreta che era posta sopra il laboratorio dei pittori di scena. Tutto era sporco e impolverato. C’era un enorme quadro a olio che raffigurava quel tizio, Hitler, che teneva al guinzaglio un grosso cane lupo. C’erano dei pesanti libroni che parlavano di razze umane. C’era un modello in gesso del loro teatro, ma era diverso, era come un progetto per farlo più grande e imperioso. C’erano degli scatoloni pieni di lettere scritte con carattere gotico, quasi illeggibili. C’erano anche delle fotografie: la nonna, papà, lo zio. Tutti insieme a Hitler.
Gottfried riuscì a strappare qualche informazione al buon Hans Lodes, da decenni il portiere del Teatro. Quel modello in gesso doveva rappresentare la monumentalizzazione del Festspielhaus, progettata nel 1940 da un architetto nazista. Il Führer – spiegò Lodes – era stato spesso a Bayreuth e amava molto la famiglia Wagner. Gottfried gli chiese dove si trovasse adesso, e apprese che quel tizio, Hitler, era morto da tempo. Allora cominciarono a quadrargli tante piccole cose: ecco perché la nonna nella corrispondenza usava quella misteriosa sigla «Usa» che peraltro pronunciava soprattutto ogni 20 aprile, nel corso di un’incomprensibile festa: «Usa» stava per «Unser Seliger Adolf», «il nostro caro estinto Adolf», e il 20 aprile era il compleanno di Hitler. Ecco anche il significato di quella cifra, «88», che ricorreva sempre nei discorsi familiari: l’ottava lettera dell’alfabeto era la «h», dunque 88 era due volte «h», cioè «hh», cioè Heil Hitler. Ecco perché scoppiò un gran bailamme quando riuscì ad aprire l’armadio di ferro che stava nella seconda stanza della musica: conteneva tutto il carteggio con Hitler dal 1923 al 1945, trecento lettere.
Le scosse che preannunciavano gli anni della contestazione, intanto, non vennero colte. In alta Franconia i terremoti erano altri: quando il mezzosoprano afroamericano Grace Bumbry interpretò Venus nel Tannhäuser, nel 1961, a Bayreuth scoppiò una specie di rivoluzione: per gli ortodossi era inconcepibile che una cantante negra potesse interpretare un lavoro del sommo maestro. Dilagavano isterie comuniste e anticomuniste, fu l’anno in cui eressero il muro di Berlino. Nonna Winifred, intanto, continuava a cenare con Edda Göring e Ilse Hess. Nell’autunno del 1963 Gottfried aveva 19 anni: un pomeriggio, lontani i genitori, si mise a esplorare una baracca di legno dove suo padre teneva un vecchio sidecar Bmw.
Vi trovò delle scatole con dentro 27 contenitori rotondi in alluminio, tutti arrugginiti, e se li portò in casa. Li ripulì, riuscì ad aprirli e ciascuno conteneva un rullino. Rimase di sale: si vedevano le varie zie, lo zio Wieland e suo padre Wolfgang che passeggiavano nel parco di Villa Wahnfried assieme a Hitler, vestito in doppiopetto. Tutti sorridevano in un’atmosfera di reciproca appartenenza. Poi si vedeva il Führer nel Teatro, le braccia tese.
Pochi mesi dopo, durante una vacanza invernale in Svizzera, Gottfried riuscì a far sbottonare suo padre. Wolfgang gli parlò del fascino che indubbiamente «Zio Wolf», «Zio Lupo», aveva esercitato su di lui. Ricordò quando il Führer andò a trovarlo all’ospedale Charité di Berlino dopo che era rimasto ferito durante la campagna di Polonia. Hitler – proseguì il racconto – aveva riunito forze positive, sconfitto la disoccupazione, riguadagnato il rispetto del mondo per la Germania: è a lui che i Wagner dovevano la salvezza del loro Festival e di ciò che rappresentava. Peccato, aggiunse, che i suoi magnifici risultati si arrestarono nel 1939. Nella loro villa era stata appositamente costruita un’ala per il Führer: e una sera, alla fine de Il Crepuscolo degli dei, lui e il fratello Wieland erano stati invitati dal Hitler a una lunga discussione che durò una notte intera, accanto al camino.
Parlarono del futuro della Germania e dell’arte tedesca. «Quando finalmente avremo ripulito il mondo da questi cospiratori ebreo-bolscevichi», disse loro Zio Wolf, «allora tu, Wieland, dirigerai i teatri d’Occidente; tu, Wolfgang, quelli d’Oriente». Gottfried apprese che della confidenza che il Führer aveva avuto con suo padre e col fratello Wieland: li faceva giocare, portava dolci e giocattoli, si faceva leggere i compiti, la sera entrava nella loro nursery e si sedeva sul letto per raccontare le sue avventure, mostrando la pistola. Parliamo dell’uomo della soluzione finale.
Altre cose, Gottfried, dovette approfondire da solo. Non sapeva che Cosima Wagner, nel 1882, con Richard ancora vivo, aveva invocato la traduzione in tedesco del Saggio sulla disuguaglianza delle razze umane scritto dal conte Joseph de Gobineau. Non sapeva che Houston Stewart Chamberlain, i cui scritti sulla purezza della razza ariana avevano ispirato l’ideologia del nazismo, era il marito di Eva Wagner, l’altra sua nonna, quella materna. Non sapeva che Hitler e Chamberlain si erano conosciuti a Bayreuth dove lo scrittore viveva – già iscritto al Partito nel 1923 – e che il Führer nel 1927 aveva anche partecipato al suo funerale. Mai avrebbe immaginato a Bayreuth, negli anni Duemila, ci sarebbe ancora stata ancora una via dedicata a Chamberlain. Gottfried avrebbe impiegato una vita a comprendere tutto questo. Non sapeva neppure che Winifred Wagner fosse stata una vera e propria fanatica del nazismo, oltreché un’amica sin troppo intima di Hitler: la nonna, durante la prigionia di quest’ultimo a Landsberg, nel 1924, gli aveva passato ogni genere di aiuti e tra questi la carta su cui scrisse il Mein Kampf. Fu lei stessa a ospitare il giovane Hitler appena uscito di galera e a spalancargli le porte della borghesia e dell’aristocrazia tedesca, dove avrebbe trovato appoggi decisivi per la sua ascesa. Salito al potere, il Führer le rivolgeva il baciamano e la chiamava «nobile signora»: diversi storici accenneranno a una precisa proposta di matrimonio che Hitler le avrebbe rivolto nel 1937, sette anni dopo che era rimasta vedova, così da saldare definitivamente il nazionalsocialismo all’icona wagneriana. Bayreuth era stata un cuore pulsante del Terzo Reich e restò l’unico teatro che mantenne un’indipendenza artistica, questo mentre tutti gli altri diventavano strumenti di propaganda: l’arte di Wagner, secondo Hitler, andava già bene così. Il Führer finanziava il Festspielehaus con pacchi di soldi e Winifred lo convinse addirittura a scrivere una lettera a Toscanini per convincerlo a dirigere il Festival. A Bayreuth si esibirono dei cantanti ebrei cui erano stati vietati gli altri palcoscenici tedeschi, anche se molti, in seguito, finirono direttamente ad Auschwitz. Da allora, negli anni, sono successe molte cose. Ma una cosa è sicura: Hitler non c’è più, il Festival sì.