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 2016  febbraio 29 Lunedì calendario

A cinquant’anni da Woodstock, Michael Lang ci riprova

Quanto erano favolosi gli anni sessanta? Lo è il modo in cui ce li hanno raccontati. Talmente unici, insieme ai ‘70, per chi ama il rock, che le generazioni successive hanno una specie di senso di inferiorità, una strana nostalgia per ciò che non hanno vissuto. E su questa fa leva Michael Lang, uno degli organizzatori del festival di Woodstock del 1969, che si sta muovendo per riproporre il raduno nel 2019, in occasione del cinquantesimo anniversario. All’epoca furono scelti i 600 acri dell’allevatore Max Yasgur, nella cittadina rurale di Bethel, stimando 50.000 partecipanti. Ne arrivarono almeno 500.000, con lo sguardo sorpreso nello scoprirsi parte di un movimento, spontaneo e che pescava da ogni dove in un’America disconnessa. Stavolta si cerca un’altra location e non si esclude un’edizione europea dell’evento. Anzi Lang vuole farlo diventare un appuntamento fisso, un “brand che gira il mondo”, dice.
IL CASTEcco, “brand” è quanto di più lontano dallo spirito che animò quel ritrovo durato dal 15 al 18 agosto, dove si condivideva e non si commerciava, si andava all’avventura, zaini e utopia in spalla, pensando di fare la rivoluzione con i fiori e i cannoni non da guerra. Quel riccioluto adolescente mise in piedi una cosa più grande di quanto la sua mente psichedelica potesse immaginare, oggi invece sa benissimo ciò che si può ottenere. Tanti sponsor, tanti soldi. Provò tempo fa a fare due sequel ufficiali. “Woodstock 1994”, organizzato e controllato, con stand di vendita e biglietti costosi, già attentò alla memoria dell’originale, creando però qualche bel ricordo nuovo di zecca, con esibizioni di Nine Inch Nails, Red Hot Chili Peppers e Green Day. “Woodstock 1999” fu quasi un tentativo di distruggere la mitologia rock e gli ideali residui del flower power. Nonostante un cast che andava da James Brown a Metallica, invece di essere all’insegna della pace e dell’amore, il festival fu segnato da risse, incidenti e caos. A voler davvero conservare la sua gloria, si dovrebbe lasciarlo in pace, lì dove stava, irriproducibile. 
E non solo perché su quel palco salirono Joe Cocker, Janis Joplin, Joan Baez, The Who, e Jimi Hendrix. Non si trattò di un concerto, ma di un momento culturale di grandi speranze e buone intenzioni, di un’atmosfera irripetibile, frutto solo di quel tempo. 
Nel mondo si fanno migliaia di festival, piccoli, grandi e medi. I nuovi Woodstock già esistono, per grandezza e cast, non ancora per significato storico, e si chiamano Bonnaroo, Coachella, Lollapalooza. Facilmente replicabili. Tanto che a qualche italiano è venuta l’idea di portarseli in casa. È infatti partita la campagna di crowdfunding su Musicraiser per realizzare Coachellamare, versione pugliese di quella californiana. È iniziata per scherzo e chissà che non diventi un appuntamento della prossima estate. E poi c’è la campagna Twitter, serissima, per organizzare il primo Lollapalooza italiano, a Campovolo di Reggio Emilia. 
IL FORMATL’idea è di Luca Villa, che ha contattato Perry Farrell, voce dei Jane’s Addiction e ideatore, nel 1991, del format rock che ora è diventato itinerante. Ci sono possibilità di riuscirci e agli artisti l’idea piace. D’altronde, con l’iniziativa Rockin’1000, si compì l’impresa di portare i Foo Fighters a Cesena. Perché non il Lollapalooza, talmente famoso che persino Homer Simpson, in una puntata, non ha resistito alla tentazione di partecipare? Tutto sembra nato e finito nel 1969, ma c’è vita oltre Woodstock. Piuttosto che strascinarlo in un tempo non suo e clonarlo, bisognerebbe creare le condizioni per nuovi incontri. Come dice proprio Homer: «Nel passato tutto è perfetto, tranne quello che ci ha portato al presente».