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 2016  febbraio 29 Lunedì calendario

Gli Oscar non vincono a Wall Street

La notte degli Oscar quest’anno è stata meno festosa del solito. Non solo per il boicottaggio che una parte degli attori e registi hanno organizzato, in polemica contro la scarsa diversità razziale delle candidature. Ma anche perché gli azionisti dei grandi studios hollywoodiani non erano in vena di brindare.
Tutte le principali società quotate a Wall Street e impegnate nel business cinematografico hanno infatti perso una buona fetta di valore negli ultimi 12 mesi, nonostante gli incassi complessivi del 2015 siano stati record: 11,1 miliardi di dollari negli Stati Uniti e in Canada, il 7% più del 2014.
I numeri
L’Oscar al botteghino l’ha conquistato The Martian, con 620 milioni di dollari realizzati in tutto il mondo nel 2015. Ma la major che l’ha prodotto, la Fox della famiglia Murdoch, vale in Borsa un quarto meno di un anno fa nonostante avesse oltre al marziano altre due nomination per il Miglior film, fra cui un altro campione d’incassi, The Reventant (383 milioni di dollari). Di poco meno (21%) sono scese le azioni di Time Warner, che controlla la Warner Bros. e aveva in lizza Mad Max: Fury Road, al terzo posto per il successo commerciale con 377 milioni di dollari.
La casa cinematografica che piace meno a Wall Street è la Paramount, che ha prodotto La grande scommessa, la spettacolare denuncia sulla crisi del 2008: il gruppo Viacom che la controlla è sotto del 40%, ma non si tratta di una vendetta contro quel film, peraltro poco amato anche dal pubblico, avendo incassato solo 67,4 milioni di dollari nelle sale americane e 54,3 nel resto del mondo.
Il problema è che l’intera Hollywood sta attraversando cambiamenti profondi e gli investitori sono molto preoccupati circa la sua capacità di reagire alle nuove tendenze. Da una parte deve fronteggiare la concorrenza crescente dei nuovi protagonisti digitali dello show business come Netflix e Amazon con il suo servizio Prime video. Occupato a guardare ore e ore di film e telefilm via Internet, il pubblico non solo va di meno nelle sale con il grande schermo, ma anche disdice l’abbonamento alla TV tradizionale, che è una delle fonti importanti di introiti per le media company produttrici di contenuti video. Per fidelizzare poi i propri utenti con lavori originali, Netflix e Amazon stanno rubando a Hollywood registi e attori di fama: l’anno scorso hanno debuttato nelle sale cinematografiche di Cary Joji Fukunaga prodotto da Netflix e Chi-Raq di Spike Lee prodotto da Amazon. Alla prossima notte degli Oscar le due Internet company sperano di conquistare qualche statuetta, come hanno già fatto con i Golden Globes. Dall’altra parte le major di Hollywood sono vittime del circolo vizioso scatenato da loro stesse: puntano sempre più sulle grandi produzioni, le serie con titoli popolari e il potenziale di sbancare il botteghino. Ma il costo dei film di questo genere è esploso, i margini di profitto per quelli di successo sono scesi e ci sono anche molti flop.
Problemi
A tutto questo si aggiungono i problemi specifici di ogni gruppo. Il crollo delle quotazioni di Viacom per esempio si spiega con la situazione poco chiara nel suo azionariato e nel suo management, che si trascina da tempo, ma è esplosa lo scorso 4 febbraio, quando il novantaduenne Sumner Reston, suo azionista di controllo, la lasciato la carica di presidente all’amministratore delegato Philippe Dauman, contro cui si sono levati numerosi soci.
Disney ha avuto un anno d’oro grazie a Star Wars—Il Risveglio della Forza, il primo film a fruttargli 1 miliardo di dollari di incassi nel primo trimestre dall’uscita, arrivando poi a guadagnare 2 miliardi in tutto. L’intero fatturato da pellicole è cresciuto nel 2015 del 46% e il successo delle «Guerre Stellari» ha trascinato al rialzo anche gli introiti da merchandising, videogiochi e vendite di dvd. Ma le azioni di Disney sono scese lo stesso per le nubi sul futuro del business televisivo di Espn, la rete specializzata in sport e importante fonte di reddito: gli abbonati sono in calo mentre i costi dei programmi salgono. E finora il ceo Robert Iger non è riuscito a tranquillizzare il mercato, pur spiegando che con un nuovo episodio di Star Wars all’anno si aspetta continui profitti dalla serie.
Gli incassi delle pellicole Fox nel 2015 sono stati invece inferiori del 14% rispetto all’anno prima, nonostante The Martian. E la società, che controlla anche reti tv e da oltre due si è separata dall’impero di carta di Murdoch ( Wall Street Journal e altri giornali), è in una fase di ristrutturazione e taglio dei costi sotto la nuova guida di uno dei figli del magnate australiano, James, ceo dallo scorso luglio.

Eccezioni

Comcast, il gruppo che possiede Universal e Focus features, registra le perdite più contenute (-5%) perché è l’unico che va controtendenza. Il suo business principale infatti è la TV via cavo, cioè il servizio di connessione delle case ai contenuti delle vari reti televisive, con in più l’accesso a Internet. Migliorando l’assistenza ai clienti e offrendo pacchetti di canali più flessibili Comcast è riuscita nell’ultimo trimestre a guadagnare abbonati, invece che a perderli e il ceo Brian Roberts si è dichiarato fiducioso di poter continuare su questa strada.
Anche il ceo di Time Warner Jeff Bewkes si è detto ottimista sul futuro del suo gruppo, che comprende i canali tv Cnn e Hbo, oltre allo studio cinematografico Warner Bros. Ma Wall Street non gli crede e sta spingendo per lo spin-off di Hbo, la rete più famosa per la produzione di serie di successo come Il Trono di Spade.
Un’ultima conferma del divorzio sempre più evidente fra Hollywood e Wall Street viene dalla Sony, che nonostante gli 879 milioni incassati con Spectre, l’ultimo film della saga dello 007 James Bond, e nonostante la forza degli affari legati alla sua PlayStation, negli ultimi dodici mesi in Borsa ha perso il 25%.