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 2016  febbraio 29 Lunedì calendario

L’Italrugby gioca i miglior terzi tempi delle Sei Nazioni. Ma allora cosa manca alla squadra? Tutto il resto...

Ancora due partite (a Dublino e a Cardiff) e Jacques Brunel lascerà la Nazionale. Al suo posto arriverà un irlandese, Conor O’Shea, attuale allenatore degli Harlequins, che dovrebbe portare con sé Mike Catt (ex assistente dell’Inghilterra) e porterà sicuramente Steve About per affidargli le Accademie, i settori giovanili della federazione.
Potrebbe essere la svolta, ma potrebbe anche non succedere nulla perché per quanto possa essere importante, il nome del c.t. è l’ultimo problema del nostro rugby. Alla guida degli azzurri si sono infatti avvicendati tecnici di altissimo livello. Tutti, però, hanno ottenuto risultati simili, a parte Pierre Berbizier (41,9% di vittorie), che ebbe la fortuna di avere un calendario extra Sei Nazioni molto più semplice di predecessori e successori.
Se non è il c.t. qual è dunque il problema? Tutto il resto. Quando le Home Unions e la Francia ammisero l’Italia nel Torneo (2000) presero la decisione più rivoluzionaria in quasi un secolo e mezzo di storia. Il rugby, a differenza del democratico calcio, si è giocato seriamente per quasi 150 anni in otto Paesi (quelli del Cinque Nazioni più Nuova Zelanda, Sudafrica e Australia) e questo ha scavato un solco profondissimo tra i migliori e il resto del mondo. All’Italia, quando venne ammessa al Torneo, nessuno chiese di vincere, come ricorda l’allora presidente Giancarlo Dondi: «Dovevamo garantire organizzazione, presenze allo stadio e una squadra che tenesse il campo».
I primi due obiettivi sono stati raggiunti: dai 20 mila del Flaminio si è passati ai 70 mila dell’Olimpico, sull’organizzazione nessuno ha mai avuto da ridire (e a Roma si «disputano» i migliori terzi tempi del Torneo), ma per i risultati si doveva fare meglio di 12 vittorie e un pari in 83 partite. Considerando però le dimensioni del nostro movimento, il suo altissimo grado di litigiosità e la qualità media dello sport italiano (l’unico Paese occidentale che non fa sport a scuola) se fossimo diventati una potenza ovale sarebbe stato un miracolo.
La Federazione italiana (100 mila tesserati, la metà in Lombardia, Veneto e Lazio) se la passa meglio di altre, ha infatti un bilancio superiore ai 40 milioni. Ma tutti i nostri avversari hanno più soldi (l’Inghilterra, che in 13 anni ha realizzato un solo Grande Slam, incassa 7 milioni di sterline – 8,8 milioni di euro – per ogni partita a Twickenham). E soprattutto hanno impianti, tecnici e possono scegliere i loro campioni tra i migliori talenti del Paese (che da noi giocano a calcio, basket e pallavolo). L’Italia è un peso medio costretto a confrontarsi con pesi massimi. Ma invece di darci dentro per ottenere il meglio possibile, fa esattamente il contrario. Per aiutare la Nazionale, dal 2010 due squadre italiane partecipano al Pro12 con gallesi, irlandesi e scozzesi. Sono le uniche due squadre professionistiche italiane (Parma e Treviso) e ricevono, ognuna, 4 milioni a stagione dalla federazione. Dovrebbero lavorare su indicazione dei tecnici federali, del c.t. sopra tutti, come accade in Irlanda, in Scozia e in Galles. Ma in Italia non succede (le Zebre solo quest’anno hanno cambiato registro).
Il rugby italiano deve augurarsi che con O’Shea inizi una storia diversa se vuole smettere di collezionare cucchiai di legno. Canna e i suoi giovani fratelli potrebbero garantire un futuro dignitoso se si lavorerà con disciplina e intelligenza. Ma il rischio che O’Shea faccia la fine dei suoi predecessori è consistente. «Sarà importante lavorare tutti assieme» disse Brunel a Nelson, Nuova Zelanda, poco prima di sedersi sulla panca della Nazionale. Pochi giorni fa ha ammesso che in quasi 5 anni non è mai successo.