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 2016  febbraio 29 Lunedì calendario

Gianni Clerici davanti al dritto della piccola Steffi Graf si sentì come i monaci che scovano il Dalai Lama

La prima vaga informazione mi giunse dal gestore di due campi sul lago di Como. Era abituato all’arrivo di turisti tedeschi che, senza raggiungere il Mediterraneo, venivano a Sud per vacanze estive meno dispendiose.
«C’è una bambina, Clerici, che lei dovrebbe vedere. Tutti i giorni suo papà la mette in campo, almeno due ore, che magari diventano tre se il campo non è occupato, e glielo lascio gratis. Dovrebbe vederla. Ha un diritto, così piccola che è. Roba mai vista. Ho paura che diventa una campionessa, se il padre non esagera…».
Il mio scetticismo doveva privarmi di una sorta di scoop perché, la prima volta che poi vidi Steffi su un campo, rimasi impressionato. Ma, più che impressionato, capii. Capii due cose. Per primo i monaci che vanno alla ricerca del nuovo Dalai Lama, e che scorgono presenze simboliche in tracce magari racchiuse in un giocattolo, o nel gusto per un tipo di caramella. Secondo, che quel papà maniaco era uno dei tanti prosseneti tennistici (absit iniuria), uno che credeva di riequilibrare un suo vitale fallimento interposta figlia; la quale sarebbe, al contempo, divenuta vittima e campionessa.
Il primo era stato Monsieur Lenglen, ma si sarebbe potuta scrivere una saga del tennis femminile traverso padri vittime di simile caratteristica, per non chiamarla deformazione psichica. Non fu infatti il custode dei campi sul Lario a mostrarmela, ma l’amico Bud Collins che già aveva ammirato Steffi a Los Angeles, dove si svolgeva una sorta di Olimpiade chiamata stupidamente “disciplina dimostrativa” e limitata a 18 anni, in attesa di ritorno a vere Olimpiadi.
Steffi vi aveva vinto il singolo, nonostante i suoi quindici anni, battendo in finale la jugoslava Sabrina Goles. L’aveva, il mio amico, soprannominata Fraulein Forehand, Signorina diritto, e come la vidi in campo, a Wimbledon, non potei che dargli ragione. Il rovescio tagliuzzato l’avevano altre, la battuta pesante anche, ma quel diritto risolveva lunghi scambi, ai quali la superiore qualità atletica ammetteva sempre Steffi con possibilità vincenti. Nel 1987 la Graf, già alta un metro e settantasei centimetri a diciott’anni, avrebbe messo in difficoltà nella finale di Wimbledon, Martina Navratilova, imbarazzata nel confessare che, il giorno in cui la sua avversaria avesse migliorato il passante di rovescio, batterla da fondo campo sarebbe stato complicato. Termine che avrei sostituito con impossibile. Nel percorrere l’umana vicenda di Steffi, non meno drammatica che sul campo, va ricordato lo straordinario successo del 1988, il cosiddetto Golden Slam, e cioè il terzo Slam fra le donne (Smith Court e Connolly le altre) e la carcerazione di Papà.
A Seul, nell’Olimpiade appunto del 1988, dove il Tennis era stato riammesso, condividevo una camera d’albergo col grande Mario Fossati, il collega che mi tollerava al Giro d’Italia, e mi tagliava i troppi aggettivi per non farmi uscire dalla mia colonnina. Gli dissi che c’era una ragazza che avrebbe vinto l’oro nel tennis, ma avrebbe potuto far lo stesso se l’avessero iscritta in una gara di corsa. Mario pensò che, al solito, esagerassi, e il mattino seguente mi scortò al campo di allenamento degli atleti tedeschi.
Gli indicai la mia tennista diciannovenne e, mentre ancora incredulo, ne ammirava le lunghe gambe, eccola partire e, sui duecento, arrivare insieme alle due ragazze prescelte per quella specialità. «Per una volta non esageravi, anzi» commentò il mio ammirato collega. Mi era parsa, la ragazza di quella mattina, diversa dalla solita Steffi del tennis, più sciolta, allegra, più libera. Avrei capito perché, rivedendola al Tennis insieme a Papà, che era nel frattempo arrivato a riprenderne il comando. Lo stesso Papà Peter che avrebbe poi trovato modo di finire in galera nel 1995 per una gestione dei premi della figlia. Gestione disonesta secondo il fisco germanico.
Negli articoli che – mi auguro – arriviate a leggere, manca certamente un ordine cronologico, reso difficile dallo spazio, e dal trattamento diaristico. Ricordo con qualche precisione che Steffi giunse a dominare il gioco, nel 1987, con una prima vittoria a Key Biscayne, in cui massacrò le due protagoniste degli anni precedenti, Navratilova e Evert. Dominò gli anni seguenti, sino al 1991, e all’apparizione di una inattesa doppia bimane, anch’essa diretta da papà, per sua fortuna dedito al disegno fiabesco, e insieme capace di generosità.
Parlo di Monica e di Karoly Seles. La vicenda della rivalità con la Seles meriterebbe una lunga storia, anche perché Steffi non trovò sufficiente umanità quando l’avversaria che l’aveva superata fu accoltellata da tale Gunther Parche, squilibrato tedesco che si disse tifoso innamorato e frustrato della Graf.
Dopo il tentato assassinio, Steffi si mise una sola volta in contatto con la rivale, mentre il dramma le consentì di ritornare n. 1 dal ’93 al ’96, mentre Monica non fu più la stessa. Ritorno al mio personaggio perditempo, ricordando che fui, casualmente, il primo ad assistere all’inizio di quella che è ora – mi dicono – la vita felice della Graf.
La sera agli Australian Open, si usava, col mio amico Tommasi, recarci nell’unico ristorantino italiano ancora aperto, al termine delle nostre lunghe telecronache. Una sera il proprietario, mentre ordinavamo, commentò «C’è qualcosa di speciale, se credono». E, mentre ci informavamo sulla speciale pietanza suggerì: «È uno scoop, al secondo piano». Tommasi, elegantemente scettico, rifiutò. Io mi inerpicai con discrezione per la scala a chiocciola e, all’unico tavolo illuminato da una candela, rimasi attonito nell’osservare un bacio tra Steffi e Andrea Agassi.
Non l’ho mai scritto, perché non amo gli avvoltoi della penna, e lo ricordo ora che i due sono ormai da anni sposi e, lo auguro, sposi felici.