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 2016  febbraio 29 Lunedì calendario

Il giovane Montanelli ritratto da Salvatore Merlo

Immaginiamo che Indro sia ancora vivo. Che cosa direbbe di questo libro di Salvatore Merlo?
Sono convinto che all’inizio avrebbe un irrefrenabile moto di fastidio. Una naturale ripulsa: le sirene della vanità sono insopportabili, soprattutto per chi sa di non esserne immune. E Indro non lo era per niente, faceva solo finta di esserlo, recitava il suo disappunto, quasi sollevato nel constatare che la messinscena – per quanto teatralmente efficace – non avrebbe ingannato nessuno.
In fondo, gli piaceva che si parlasse di lui pur con qualche licenza e approssimazione. Pericolo al quale i personaggi storici sono inevitabilmente esposti, condizione da preferire al mortale oblio dell’anonimato che è la più feroce delle sentenze.
Una volta mi disse di essersi divertito, insieme all’amico Mario Cervi, a riscrivere la storia d’Italia, soprattutto perché poteva assaporare il sottile piacere di non essere querelato da nessuno dei protagonisti. A differenza dei Mattei, dei Fanfani, dei De Mita e della lunga lista di nemici contemporanei delle cui querele fece collezione. E di cui ovviamente andò assai fiero.
Sono sicuro che Fummo giovani soltanto allora, sottotitolo La vita spericolata del giovane Montanelli, gli sarebbe piaciuto. Forse più per la scrittura e per il titolo longanesiano che per la ricostruzione di molte vicende sulle quali – come il lettore potrà facilmente intuire – qualcosa da eccepire l’avrebbe avuta. E non mi riferisco ai tanti amori che Salvatore Merlo gli attribuisce: si sarebbe schermito, rallegrandosi con un mezzo sorriso, e nemmeno al suo coinvolgimento con il fascismo di cui non fece mai mistero. Invece, si sarebbe forse infuriato nel trovarsi nei panni di un «ingenuo» o addirittura di «una capra», come emerge in alcuni passaggi del racconto di Merlo sui suoi anni più giovanili. Era uomo che amava i dettagli, le pieghe delle storie. Si deliziava nello scoprirli e, qualche volta, nello sceneggiarli. Detestava che lo facessero altri al posto suo.
Montanelli non fu mai un revisionista della storia di se stesso. La romanzò forse, con un compiaciuto gusto letterario per il lato grottesco degli avvenimenti, il fulgore ambiguo delle passioni, la fragilità dei principi solenni della dittatura esposti alle debolezze congenite dell’italianità. Qualche volta cedette all’irrefrenabile tentazione di plasmare i caratteri, di ritoccare le personalità schierandole a modo suo nell’immaginario proscenio della vita, ma dimostrò sempre umanità e rispetto anche quando, non raramente, diede sfogo alla propria leggendaria perfidia.
Non visse nell’ossessione di apparire diverso da quello che era, difetti compresi. E qui sta la grandezza del personaggio, la sua infinita originalità. Il genio è rintracciabile anche e soprattutto nelle generose dosi d’ironia e di sarcasmo disseminate nei suoi scritti.
E, forse, la vera natura del fascismo venne smascherata anzitempo proprio da lui, nelle pagine più disilluse – scritte in barba alla censura – che si sostituiscono via via a quelle mosse da entusiasmi e furori giovanili mal riposti. Così avvenne in occasione della «scandalosa» corrispondenza dalla Spagna sull’esito della battaglia di Guadalajara, che, però, com’è ricordato in questo libro, gli costò la rimozione tra gli inviati di guerra. Così anche nei primi articoli per il «Corriere della Sera» diretto da Aldo Borelli, quando curava le corrispondenze dall’Albania ostaggio dell’operetta triste e stracciona dell’Impero (per sua sfortuna fu costretto ad andarsene pochi giorni prima del «glorioso» sbarco a Durazzo, degno del peggior avanspettacolo). Emblematica, in proposito, appare la celebre canzonatura – non avvertita dalla censura – del gerarca Starace descritto mentre dà il via a una corsa patriottica di ciclisti in camicia nera con direzione Berlino: cronaca irridente, ancor più abbellita dal fatto (non vero) che i ciclisti avessero, durante una sosta, mietuto il grano con i contadini.
Nei regimi totalitari il comico è l’anticamera della tragedia e di tale fenomeno, che fu speciale in Italia, Montanelli fu cronista assai puntuale, facendosi talvolta beffe di una propaganda tutt’altro che occhiuta nel comprendere allusioni e doppi sensi.
Osservatore disincantato e non militante, viene descritto nel libro di Merlo anche nelle febbrili giornate che precedettero la guerra. Berlino gli appare fredda e tutt’altro che entusiasta. E i suoi primi articoli sul conflitto non omettono di parlare del dramma della popolazione civile polacca, già devastata dai bombardamenti (poi tema del suo libro La lezione polacca ) e nei quali appare evidente quanto lui nutrisse molta più simpatia per quel popolo di quanta non ne provasse invece per i tedeschi, malgrado fossero i nostri alleati.
L’incontro con Hitler avvenne veramente ma è ancora oggi avvolto in un’aura leggendaria. Indro dapprima romanzò il fatto, poi si sarebbe pentito, pur deliziando sempre i suoi interlocutori con un racconto sospeso fra realtà storica e immaginazione letteraria.
Molto efficace la descrizione dell’invasione sovietica in Finlandia a cui Montanelli fu tra i pochi ad assistere, in quel Nord ove fu spinto, non solo dalla sua inquieta curiosità, ma anche dalla necessità del regime di tenerlo lontano dagli avvenimenti più caldi, dato che la censura, inizialmente distratta, cominciò a tenerlo sotto osservazione e a temerlo. E Borelli, il direttore del «Corriere», fascista pure lui ma non cieco servitore, anche se lo apprezzava fu sul punto di licenziarlo, rimproverandolo di non aver scritto nulla di un’inesistente furiosa battaglia norvegese, che era stata annunciata dall’agenzia Stefani ma non era mai stata combattuta, accorgendosi infine che aveva ragione Indro e che l’invasione della Norvegia non era avvenuta nello sfavillio delle armi voluto dalla retorica del regime.
All’annuncio dell’entrata in guerra dell’Italia, Indro è a Roma. Coglie nell’umore popolare una strana remissività, una malcelata rassegnazione, come racconta Merlo. Ha la sensazione sgradevole di un entusiasmo insincero, di un abbandonarsi stordito al destino, anziché di un’invincibile voglia popolare di cavalcarlo. La sua libertà interiore non viene mai meno. Diffida del conformismo, in tutti i suoi aspetti. A maggior ragione di quelli imposti dal regime. La vittoriosa retorica imperiale non l’ha mai incantato. Nemmeno quando, giovanissimo, era inebriato dai profumi rivoluzionari, irresistibili come le grazie femminili di cui era ghiotto. Gli scricchiolii del regime erano già evidenti agli occhi di Montanelli e di molti suoi amici, Mario Pannunzio fra questi. E sarebbero stati chiari nella disgraziata avventura greca, nella quale gli italiani presero «un sacco di legnate che Mussolini, vendicandosi, impedì ai giornalisti di raccontare».
Una lettera assai significativa, scritta da Indro alla prima moglie Maggie, descrive tutta la delusione dell’uomo per il regime e lo sdegno del giornalista. «Io avrei potuto veder pubblicato un mio articolo al giorno, se avessi rinunciato a un certo atteggiamento, ma non ci ho rinunciato e Borelli ha avuto il buon senso di non rimproverarmelo». I suoi articoli cominciarono a essere sospetti. Anche e soprattutto quelli dalla Croazia, alleata dei nazisti. Le autorità ministeriali, dapprima diffidenti, diventarono apertamente ostili.
Gli entusiasmi giovanili si erano sciolti nell’orrore della guerra. Vennero i tempi della Resistenza, della lotta fratricida e il giovane Montanelli si lasciò – come da sua ammissione – trascinare dagli eventi «dissolvendosi in essi, senza contribuirvi in un modo o nell’altro».
Il 26 luglio, caduto Mussolini, scrisse sul «Corriere», stimolato da Gaetano Afeltra: «Io? Io adesso voglio poter fare soltanto una cronaca di fatti e di parole veri». Con il ritorno dei fascisti al potere, verrà espulso dall’Ordine dei giornalisti. Disoccupato, minacciato e ricercato. E poi arrestato dai nazisti: aveva pensato di congiungersi, con i gradi di ufficiale del Regio Esercito, sollecitato dall’amico Filippo Beltrami, alle formazioni partigiane. Incarcerato, prima a Gallarate e poi a San Vittore, anche perché sospettato di aver scritto sotto falso nome, sul «Messaggero», articoli sulla Petacci. Non era vero niente. Montanelli fuggirà da San Vittore dopo aver incontrato Mike Bongiorno e il falso generale Della Rovere. Grazie alla mamma, come sempre nei momenti più difficili. Ma anche grazie al cardinale Schuster, all’editore del «Corriere» Aldo Crespi. Alla fortuna.
Riparato in Svizzera, scriverà al padre comunicandogli tutta la sua delusione, anche per un antifascismo di maniera che a suo giudizio mutuava alcuni dei difetti antropologici del fascismo: «Ho bisogno di venire a Roma per vedere come stanno le cose». Altrimenti era meglio andare a Buenos Aires. Tornerà, ostinandosi a essere, come Prezzolini, un anti-italiano militante.
Nel dicembre del 1999 gli feci un’intervista in pubblico sul secolo che stava finendo, sui suoi ricordi e i suoi rimpianti. «Ma se dovessi rinascere, quale Paese sceglieresti?». Indro rimase in silenzio per qualche secondo. «Guarda, lo dico con una certa sofferenza, ma vorrei rinascere in Italia!».
Montanelli era uomo da duelli infiniti, come di amori esplosivi quanto effimeri. Merlo ricostruisce, in un capitolo di rara bellezza espressiva, la rivalità con Malaparte, il «servo sciocco di Ciano», il «camaleonte travestito da Narciso». I due si conobbero a Milano nel 1938. Malaparte era già famoso e idolatrato, anche da se stesso. Si odiarono cordialmente per il resto dei loro giorni. Malaparte avrebbe detto, ormai alla fine: «Deve morire prima lui». Indro detestava l’ipocrisia della morte; la ritualità delle sepolture con sentimenti tanto buoni quanto falsi. E quando il suo rivale passò a miglior vita, distillò una goccia di toscano e postumo veleno: «Dobbiamo dire che Curzio, morendo, ha avuto ragione». A ciglia asciutte, come diceva lui. Lapidario, come il più celebrato dei suoi controcorrente.