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 2016  febbraio 29 Lunedì calendario

Messina, il ponte che non s’ha da fare

Pudore o decenza? Difficile trovare altre spiegazioni per il fatto che nell’elenco delle 868 incompiute non compaia la cosiddetta Variante di Cannitello, indicata da molti organi di informazione come una delle più scandalose opere pubbliche non finite della Calabria. Perché insieme avrebbero dovuto inserire nella stessa lista l’opera per cui quel breve tratto ferroviario era necessario, e che non si è fatta: il ponte sullo Stretto di Messina. Ne sentiremo parlare ancora a lungo, statene certi. La liquidazione della società concessionaria, la Stretto di Messina spa controllata dalle Ferrovie, doveva durare tassativamente un anno, ma ne sono passati tre e siamo ancora a carissimo amico. E adesso, nella causa per risarcimento danni intentata dalle imprese che si sono viste revocare l’appalto è stata tirata in ballo anche la Corte costituzionale, a coronamento di una delle storie più incredibili della nostra giovane repubblica.
Di tutte le incompiute di questo Paese il ponte sullo Stretto di Messina è senza dubbio quella che detiene il maggior numero di primati. La durata: la norma che ha previsto un collegamento stabile fra la Sicilia e la penisola è stata approvata dal Parlamento 45 anni fa, mentre Tito incontrava Paolo VI e la Corte costituzionale abrogava la legge che vietava l’uso di anticoncezionali. I costi: 350 milioni già spesi per il progetto e la gestione della Società Stretto di Messina, costituita nel 1981, ma che potrebbero superare agevolmente 1,2 miliardi se il giudice concedesse il risarcimento di 790 milioni più interessi chiesto dalle imprese.
E poi le promesse. Pochi presidenti del Consiglio hanno resistito alla tentazione di promettere. Perfino Matteo Renzi, che per la sua promessa ha scelto di farsi intervistare da Bruno Vespa: «Prima di discuterne sistemiamo l’acqua di Messina, i depuratori e le bonifiche. Poi faremo anche il ponte, che diventerà un altro bellissimo simbolo dell’Italia». Dichiarazione capace di scatenare l’esultanza di Angelino Alfano e di dare la stura a una mozione approvata a settembre scorso dalla Camera che ha rilanciato le ambizioni del partito del ponte. Per la terza volta negli ultimi quindici anni.
La realizzazione del ponte è stata avviata e revocata due volte. Nel 2001 il secondo governo di Silvio Berlusconi lo mette in cima alla lista delle opere strategiche previste dalla legge obiettivo. Pochi mesi prima della fine della legislatura si procede alla gara e mentre i sondaggi danno già vincente il centrosinistra che quel ponte non lo vuole costruire, viene firmato il contratto con il general contractor: si chiama Eurolink, è guidato da Impregilo, e vi partecipano altre imprese italiane (Condotte, la Cmc aderente alla lega delle cooperative e il consorzio Argo) oltre alla spagnola Sacyr e alla giapponese IHI. Ci sono poi i progettisti danesi
Come previsto arriva il governo di Prodi, che mette il ponte nel cassetto destinando i finanziamenti statali ad altre opere. La società Stretto si salva per un soffio dalla liquidazione grazie all’intervento del ministro delle Infrastrutture Di Pietro. Trascorrono due anni e a Palazzo Chigi ritorna di nuovo Berlusconi, che riapre il dossier, anche se nel frattempo i costi dell’operazione sono lievitati di un miliardo. Si va avanti per tre anni, la progettazione esecutiva si conclude nei tempi e quando il cantiere sta per aprire, ecco una sorpresa. Un bel giorno di ottobre del 2011 succede che in Parlamento passa una mozione dei dipietristi che impone la soppressione dei finanziamenti pubblici: addirittura con il parere favorevole del sottosegretario alle Infrastrutture dello stesso governo Berlusconi, l’ex assessore calabrese Aurelio Misiti. Il ministro Matteoli lo sconfessa ma non c’è tempo neppure per le polemiche. Berlusconi cade dopo qualche giorno.
Al suo posto c’è Mario Monti, che si occupa di chiudere definitivamente la pratica con una norma in base alla quale Eurolink dovrebbe sottoscrivere un impegno a non chiedere risarcimenti nel caso l’opera venisse cancellata. Il Parlamento approva la legge quattro giorni prima delle dimissioni del governo. E il 15 aprile 2013, due settimane prima di essere sostituito da Enrico Letta, Monti firma il decreto di liquidazione della Stretto di Messina spa. Commissario è Vincenzo Fortunato, l’ex capo di gabinetto di Giulio Tremonti, poi di Domenico Siniscalco, quindi di Di Pietro, ancora Tremonti, Monti e Vittorio Grilli.
La legge parla chiaro: la liquidazione dovrà durare soltanto un anno, non un giorno oltre. Fortunato mette subito le mani avanti: «Forse ci vorrà qualcosa in più perché il contenzioso è cospicuo e non riguarda solo Eurolink», dice in una intervista a Radiocor. Di anni ne sono trascorsi già tre e la liquidazione, com’era prevedibile, è ancora aperta. Eurolink e il project manager Parsons Transportation hanno ovviamente fatto causa civile. Durante l’udienza svoltasi a novembre è stata sollevata un’eccezione di legittimità costituzionale della legge approvata nel dicembre 2012 che ha di fatto posto le condizioni per lo scioglimento del contratto. Aprendo un nuovo infinito scenario, nel caso in cui la Consulta ritenesse fondato quel rilievo. Per chi non lo sapesse, in Italia la durata media di una causa per inadempienza contrattuale è di 1.210 giorni. Il traguardo del mezzo secolo impiegato per non fare un ponte è più vicino di quanto sembri.