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 2016  febbraio 29 Lunedì calendario

Nevica. Era ora

Te ne accorgi già a letto, per lo strano silenzio del mattino. Il resto te lo dice l’abbaino che non si apre e la luce lattea nella stanza. È lei che è ritornata, la neve. La aspettavamo da dodici settimane, e ora scende, turbina tra le crode e le forcelle, fiocca sulle immense abetaie che coprono gli Altopiani della Prima Guerra mondiale. Nevica da sette, otto ore sulle malghe e le radure del Mario, il nostro Rigoni Stern, sul bosco degli urogalli, sulle cima foracchiata del Pasubio, il Monte Portule e le pietraie maledette dell’Ortigara. Nevica, e non accenna a smettere, e negli uomini del rifugio si propaga la gioia infantile della stagione che si rimette a posto, della normalità ripristinata dopo novanta giorni di terra bruciata fin quasi ai tremila metri.
“La vien”, “No la vien”. “Fioca”, “No fioca”. Da settimane era un tam tam con gli amici del monte, in una patetica alternanza di speranza e delusioni. Stavolta il meteo parlava chiaro. Ne sarebbe venuta tanta, con rischio valanghe. Tempo giusto per salire all’Alpe, infrattarsi in baita come marmotte e celebrare l’inverno con una camminata con le “ciaspole”, le racchette da neve. “Dar Winkh winkht, dar Snea ist da”, il fringuello canta e la neve arriva, confermavano gli amici della montagna cimbra. E ora eravamo là, sul filo del confine tra Veneto e Trentino, lungo la linea dei forti della Grande Guerra, ad assistere alla grande metamorfosi.
I primi a cominciare erano stati i cani da slitta, la sera. Accampati all’aperto sotto il rifugio,ciascuno nella sua gabbia, erano più inquieti che mai. L’indomani avrebbero avuto una gara sulle ultime piste aperte sotto il passo Vezzena, ma non era quello che li innervosiva. Era la neve nell’aria che fiutavano avidamente. I loro occhi gialli ti fissavano, bucavano il buio della foresta. Poi si erano visti i guardaboschi, più numerosi del solito, perché intorno – dicevano le voci di paese, giù a Luserna – c’erano i lupi, quelli trasmigrati dai Lessini, che con quel tempo sarebbero scesi in basso. Alla fine era cominciato a fioccare sul serio, e sull’Alpe era sceso il silenzio.
Al mattino erano già quaranta centimetri. Turbinava come solo Buzzati avrebbe saputo descrivere e il fondo era perfetto per un’uscita. “Dar Bintar”, l’inverno bussava alla porta, e noi via, tra le colonne degli abeti stracarichi, granatieri irrigiditi sull’attenti, verso le rovine del “Padreterno” – così è chiamato per la sua potenza il forte austro- ungarico di Luserna – come galleggiando nella panna, in una luce senza tempo e senza ombra. Uof uof diceva il nostro passo regolare e di tanto in tanto il bosco scaricava la massa bianca sopportata dalla pazienza dei rami.
Brumf. In cima, i ruderi rossastri del dinosauro di pietra che la clemenza della natura copriva centimetro dopo centimetro, facendo lievitare spalti e bordure attorno agli spigoli dei muraglioni sbrecciati.
La neve ricopriva anche il frontino di Gustav, la sentinella austriaca, riprodotta come in decalcomania su una sagoma di ferro rugginoso al limitare del bosco, Gustav che lassù – diceva una tabella ovale – aveva scontato 1127 infiniti giorni di guerra. Ma almeno il tempo era buono per i soldati sul fronte. Con la neve il cecchino non spara e tacciono i cannoni. Poi la discesa al rifugio Malga Campo, col camino che fuma, Gigi che sacramenta col battipista e Anuk, il border collie che ci riconosce e ci corre incontro; poi la festa della stufa accesa e il sorriso di Silva che scodella un pasticcio con zucca e porri. Fuori dai vetri appannati, l’Alpe vestita da sposa. E la primavera che ora, solo ora, è autorizzata a venire.