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 2016  febbraio 29 Lunedì calendario

Le carceri italiane sono diventate palestre dell’Isis

Allahu Akbar. La voce del Muezzin chiama alla preghiera. Questa volta però, non arriva dal pulpito della Grande Moschea di Roma o da quello di Torino, ma da una fredda applicazione ad hoc, possibilmente da tenere in modalità volume basso nei pochi metri quadrati della cella. Nell’interminabile reclusione c’è chi nella fede prova ad attenuare e alleviare l’attesa con la voce del Muezzin, anche se virtuale. Said, Mohammed, Hassan, Mostafa e molti altri aspettano al Jumoa, il venerdì. È un giorno speciale per i musulmani, ancora di più per quelli detenuti, perché è un appuntamento riservato a chi è di fede islamica: momento di preghiera, di incontro, di scambio: domande, risposte. È il giorno nel quale ci si può purificare il cuore e la mente dal grigiore della cella. E l’identità islamica diventa una forza in un luogo dove difficilmente trova spazio la speranza.
La palestra di Marassi
Quella che Salah Husein, un ingegnere e imam italo-palestinese, prova a trasmettere ogni Jumoa. A Genova, e non da una moschea: da una fatiscente palestra carceraria che il venerdì si veste di tappetini colorati rivolti verso la Mecca, tra detenuti accusati di crimini di varia natura che per quell’ora alla settimana provano a vestirsi da angeli. Salah è uno dei pochissimi imam ad avere il permesso di accedere al carcere in visita di detenuti di fede islamica, fa questo lavoro da 26 anni e non si è mai stancato di percorrere il tragitto da casa al carcere di Marassi, sotto braccio il corano e un tappetino, nel cuore lo spirito del volontario. Sono le 12,30. Come ogni venerdì lo aspettano una trentina di detenuti. Li deve guidare alla preghiera, ascoltare le loro richieste, pronunciare un sermone che possa essere tanto utile quanto educativo: per un buon musulmano e anche per un cittadino modello. I detenuti sono maghrebini ma anche – per esempio – albanesi. Così lui si alterna tra l’italiano e l’arabo. «Nel disorientamento che il musulmano incontra in carcere – spiega il sociologo Mohammed Khalid Rhazzali, che ha scritto “L’islam in carcere” (Franco Angeli editore) – il rapporto con la religione appare, spesso, come l’unica risorsa capace di garantire un punto di riferimento utile per capire la propria condizione. Lo si vede nelle carceri dei Paesi in cui la maggioranza della popolazione è musulmana, diventa ancora più vero in quelli nei quali essere musulmano significa appartenere a una minoranza».
Diritti e necessità
«L’assistenza religiosa è un diritto dei detenuti. Oggi sta diventando un’esigenza sempre più forte, una necessità da gestire» aggiunge Youssef Sbai, docente del corso di formazione e aggiornamento sull’islam e suoi aspetti culturali, per il personale carcerario. Le differenze culturali, a cominciare da quelle alimentari, in carcere non vengono nemmeno prese in considerazione se non come un extra concesso solo in alcune. Tra le testimonianze dei detenuti musulmani raccolte da Ghazzali, Qais spiega come ci si organizza per il cibo: «Dimentica Halal o non Halal. Qui si rispetta solo la cosa del maiale. Però se hai soldi puoi ordinare se vuoi il pollo halal e te lo portano. Hanno delle convenzioni con delle macellerie islamiche. Questo è un grande giro commerciale nelle carceri italiane».
Ricchi e poveri
Insomma c’è chi se lo può permettere, chi ne fa a meno e chi si adatta seguendo il consiglio di alcune interpretazioni religiose: «Il mio compagno è faqih, racconta Larbi a Al Ghazali, e dice che Bismi-llah (nel nome di Dio) rende tutto halal. Nella condizione carceraria non ti conviene aggiungere ai problemi un altro problema». Eppure i detenuti di fede islamica nelle carceri italiane non sono pochi. Una realtà sotto i riflettori soprattutto negli ultimi anni, a causa del terrorismo di matrice islamica e la minaccia jihadista che hanno dimostrato di trovare nel carcere la zona ideale per fare proselitismo e raccogliere adepti. Sono infatti oltre 200 gli osservati speciali negli istituti di pena italiani, su 10 mila e 400 detenuti di fede islamica, ha dichiarato solo qualche mese fa Santi Consolo, capo del dipartimento per l’amministrazione penitenziaria (Dap).
Radicalizzazione in cella
Il dato preoccupa non tanto per il numero di osservati speciali quanto perché è chiaro che si fa poco o nulla in concreto per combattere la radicalizzazione in carcere. Sull’islam si procede ancora a tentoni, come quando si parla di aprire nuove moschee. Sul tavolo c’è un protocollo d’intesa appena firmato dal ministro della Giustizia Andrea Orlando e l’Ucoii, per la formazione di futuri ministri di culto (appena 14 candidati in attesa di formazione), per far fronte a un problema che è già passato, presente e futuro insieme. A Rossano Calabro (in provincia di Cosenza) sono recluse almeno 21 persone accusate di terrorismo internazionale. Negli istituti di pena, secondo le analisi e i monitoraggi dello stesso ministero, gli incontri di preghiera ci sono eccome, ma solo 52 istituti dispongono di un locale apposta, mentre in 132 il culto è esercitato nelle celle o in locali occasionali. Ma a preoccupare di più, in realtà, è la prevenzione specializzata. Perché a leggere la scheda di monitoraggio del ministero si scopre che sono solo 9 gli imam che hanno accesso alle carceri, 14 i mediatori culturali. Davvero pochi rispetto a una percentuale del 35% di musulmani tra i detenuti totali nelle carceri italiane.
Lo stemma dell’Isis
Singolare il caso dell’ex detenuto Mohammed Carlos Gola, un giovane brasiliano convertito all’islam, che si è fatto conoscere alle cronache per aver denunciato e vinto la causa contro le discriminazioni subite in carcere in quanto musulmano. Oggi con lui è possibile parlare solo in presenza del suo avvocato. Ma a visionare un video dove lui e il suo legale spiegano ciò che gli era successo durante la detenzione, non può sfuggire la felpa che Carlos Mohammed indossa con lo stemma dell’Isis in bella evidenza. È senz’altro il caso di chiedersi come sia accaduto che questo ragazzo abbia abbracciato il radicalismo dell’Isis in carcere e perché, una volta uscito, non abbia poi più voluto farne a meno.
Serve attenzione
«I sentimenti, di rabbia, discriminazione, disturbi psicologici di vario tipo, di vendetta e rivendicazione verso la giustizia italiana, vista dal proprio vissuto come ingiusta, possono trovare rifugio nel messaggio estremista – spiega Husein -, per questo il rischio della radicalizzazione è presente e ha bisogno di strategia. Mi è capitato molte volte di correggere questo messaggio estremista, ma chi mi dice che io ci sia riuscito sempre e che invece non trovi risposta in altri luoghi di detenzione dove invece c’è il vuoto?» La comunità dei detenuti di fede islamica, insomma, può giocare due ruoli opposti. Se la si incontra con un modello costruttivo di integrazione, come prova a fare da volontario Husein, può produrre dialogo. Se rimane fuori controllo, gestita esclusivamente dai detenuti – come i dati del ministero dicono che accada oggi – non c’è da stupirsi se le carceri italiane si trasformano in una palestra di estremisti. In questi casi l’islam dà una solida ideologia, che ha dimostrato di far breccia anche su chi vive in condizioni migliori di un detenuto. Proprio il detenuto di cui parla il Corano al versetto 8 della Sura Al Insan, descrivendolo come bisognoso di attenzioni quanto l’orfano e il povero.