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 2016  febbraio 29 Lunedì calendario

Clinton vs Trump, sembrano rimasti solo loro due per la Casa Bianca. Aspettando il Super Martedì

 Da oggi «la campagna diventa nazionale». Hillary Clinton, di fatto, guarda già alla sfida finale con i repubblicani. O meglio contro Donald Trump. Con le prime parole pronunciate l’altra notte, subito dopo la vittoria in South Carolina, Hillary ha voluto soprattutto «mandare un messaggio all’America». I numeri della vittoria di sabato sono ancora più netti del previsto. Clinton ha ottenuto 271.514 preferenze, pari al 73,5%, contro le 95.977, cioè il 26%, raccolte da Sanders. I delegati in palio erano 57 che ora vengono distribuiti in modo proporzionale: 43 a Hillary, 14 a Bernie. 
Ma il primo passaggio a Sud di questa campagna elettorale ha chiarito un punto fondamentale in casa democratica. Il settantaquattrenne senatore del Vermont non è riuscito a fare breccia nel voto degli afroamericani. Nel South Carolina il 60% degli elettori che si è presentato alle urne era composto da uomini o donne di colore. Ebbene l’87% di loro ha scelto Hillary e solo il 13% Bernie. In media, in tutto il Paese, un quarto del bacino democratico è formato da afroamericani. Nel 2008, proprio in questo Stato, Hillary aveva cominciato a perdere i voti dei neri, migrati verso l’allora semisconosciuto senatore Barack Obama. Sabato li ha recuperati tutti. 
Dal podio allestito all’Università del South Carolina, la candidata dei democratici ha tenuto un discorso oggettivamente di grande spessore politico. Solo poche frasi dedicate al contendente per la nomination, Sanders. Hillary entra oggi nel «Super martedì», 11 Stati al voto in campo democratico, salendo di tono. Ha cominciato attaccando quello che evidentemente considera l’unico vero avversario per la Casa Bianca, Trump. Prima ne ha capovolto lo slogan-bandiera «Fare tornare grande l’America»: «L’America non ha mai smesso di essere grande, il problema è di avere un’America intera, unita». E ancora: «Invece di costruire muri, abbiamo bisogno di abbattere le barriere. Dobbiamo mostrare che siamo davvero tutti insieme in questo Paese che è stato costruito da persone che hanno lavorato spalla a spalla». 
Rispetto all’ultimo comizio, dopo il successo di misura in Nevada, il 20 febbraio, Hillary Clinton ha cambiato marcia, presentandosi già come la presidente di tutti gli americani. Si è spinta fino a chiamare in causa la Prima Lettera ai Corinzi di San Paolo, nel brano che descrive la necessità e il potere dell’amore: «Vi sembrerà strano sentire da qualcuno che corre per la presidenza che in America abbiamo bisogno di più amore e di più gentilezza, ma è così. Ne abbiamo davvero bisogno». 
Ieri Bernie Sanders era in Oklahoma. Ha parlato anche lui: «Ci hanno decimato». Scosso, ma non rinunciatario. Ha rianimato i suoi giovani, i suoi fan, forse i più entusiasti in assoluto. Oggi prova a rimanere in gara, puntando a vincere in Colorado, Minnesota e Massachusetts. Ma forse anche questo (difficile) filotto non basterebbe per rimontare.

Giuseppe Sarcina

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«Game over»? Le vittorie nettissime di Trump in Nevada, South Carolina e New Hampshire tra i repubblicani e, ora, quella a valanga di Hillary Clinton, sempre in South Carolina, in campo democratico, spingono a ipotizzare che la partita delle primarie sia già di fatto chiusa (il miliardario e la ex first lady con la nomination per la Casa Bianca già in tasca) prima ancora di arrivare alle tappe-chiave del Supermartedì (domani si vota in 11 Stati per il fronte progressista e in 13 per quello conservatore) e a quella di metà marzo quando voteranno altri Stati «pesanti» come Florida, Ohio e Illinois. 
In effetti le cose stanno evolvendo molto rapidamente in questa direzione, ma paradossalmente, la partita può essere considerata già pressoché chiusa solo per i democratici, nonostante Sanders abbia perso nettamente solo una volta, vincendo in New Hampshire e incassando due sconfitte sul filo del rasoio in Iowa e Nevada. Questo perché, nonostante l’entusiasmo dei giovani per il senatore socialista del Vermont, a votare sono sopratutto adulti e anziani che stanno dalla parte dei Clinton. I quali hanno anche un forte consenso nelle minoranze etniche, soprattutto i neri, che Sanders, visti i numeri del South Carolina, non è riuscito nemmeno a scalfire: tra gli afroamericani Hillary ha vinto sei a uno e i sondaggi dicono che lo stesso scenario si ripeterà domani in tutti gli Stati del Sud al voto: la Clinton a valanga in Texas (che, da solo, assegna 222 dei 4.763 delegati democratici), ma anche in Georgia, Arkansas, Oklahoma, Virginia, Tennessee e Alabama. 
La strada per arrivare al «quorum» di 2.382 delegati democratici – quello necessario per essere eletti con certezza dalla convention del partito – è ancora lunga, ma Hillary può percorrerla con maggiore tranquillità se, come tutto lascia prevedere, il voto di domani indicherà che l’«onda anomala» dei consensi per Sanders sta, almeno in parte, rientrando: oltre al suo Vermont, Sanders sta cercando disperatamente di conquistare Minnesota e Colorado, mentre in Massachusetts è testa a testa nei sondaggi. Il suo problema: per prevalere sulla Clinton che può contare anche su quasi tutti i 715 superdelegati scelti dal partito, il senatore dovrebbe infilare una serie di vittorie di proporzioni clamorose in grandi Stati. Improbabile. 
Del resto già da qualche giorno nel team di Sanders si sente parlare di quella del senatore come di una campagna «di bandiera» per costringere la Clinton a spostarsi più a sinistra, mentre Hillary ha cominciato a mettere nel mirino Donald Trump, più che il suo avversario democratico. 
Anche l’immobiliarista di New York procede a vele spiegare verso la nomination, ma la sua navigazione è più agitata, anche se tutti i tentativi fini qui fatti dal partito repubblicano e dai suoi grandi finanziatori per far deragliare la sua candidatura sono falliti. Panico, confusione, paralisi: è questo lo spettacolo offerto in questi giorni dal partito della destra. 
Se quello democratico appare sclerotizzato dalla presenza ingombrante dei Clinton e dall’assenza di leader giovani di qualche spessore (l’unica alternativa alla Clinton, in caso di sue disavventure giudiziarie, è il 74enne Joe Biden), il «Grand Old Party» rischia addirittura di essere ridotto a un cumulo di macerie dal ciclone Trump. Populista e autoritario, Donald rappres enta tutto quello che i «padri fondatori» hanno cercato di evitare nei meccanismi di governo degli Stati Uniti. E Trump su molte questioni-chiave, dalle tasse alla bioetica, ha idee lontanissime da quelle dell’ortodossia repubblicana. 
Dunque Rubio e Cruz continueranno a sfidarlo e il partito tenterà ancora di arrestare la sua corsa facendo scoppiare qualche caso clamoroso. Ma il miliardario ha cominciato a fare proseliti anche tra i leader «centristi» del partito (dopo Chris Christie, anche John Kasich, che pure è ancora in corsa per la Casa Bianca, ha detto che si schiererà con lui, se vincerà le primarie). I suoi due giovani sfidanti stanno cercando solo di limitare le sconfitte e di racimolare un numero di delegati sufficiente a impedire a un pur vittorioso Trump di raggiungere il quorum di 1.237 rappresentanti alla convention necessario per essere eletto al primo ballottaggio. Fallita l’elezione al primo turno, potrebbe succedere di tutto, qualora l’ establishment del partito ritrovasse unità e coraggio. Improbabile, ma la campagna del 2016 è già stata piena di sorprese.
Massimo Gaggi