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 2016  febbraio 28 Domenica calendario

Riscoprire Clemente Rebora

Cesare De Michelis, qualche anno fa, si disse convinto che il Novecento letterario italiano andasse riletto, cioè sistematicamente ripubblicato. Per diverse ragioni, condivido l’idea. La prima e più promettente per i lettori di oggi è che scoprirebbero cose inaspettate, in passato non viste, o viste con occhi diversi, o trascurate e storicizzate male e quindi oggi dimenticate. La ragione letterariamente più visibile è poi che ormai (ma forse da qualche decennio) troppo spesso si scrive narrativa e perfino poesia italiana non leggendo, non avendo letto gli autori con i quali la modernità si è imposta e più tardi sviluppata fino agli ultimi fuochi del suo tramonto. 
L’idea di canone, sempre utile quando parti della storia cadono nell’oblio, è però diventata presto una specie di mania, per cui l’intero Novecento viene ridotto a una decina di nomi senza dubbio importanti, ma a volte ciecamente consacrati (a cominciare da Gadda, Montale, Pasolini e Calvino) o ridotti a icone venerate soprattutto perché si è molto lontani dalle situazioni storiche irripetibili in cui scrissero (ho il sospetto che perfino due scrittori imprescindibili come Primo Levi e Fenoglio siano oggi studiati perché né la Resistenza né i lager ci riguardano più direttamente).
Devo queste troppo generali considerazioni a una precisa occasione editoriale. A cura e con un saggio introduttivo di Adele Dei, esauriente e ammirevole per precisione e estro descrittivo, abbiamo ora un Meridiano Mondadori che mette a disposizione del lettore, come dice il titolo, Poesie, prose e traduzioni di Clemente Rebora, accuratamente annotate con la collaborazione di Paolo Maccari. Famosa, la definizione che di Rebora diede Pasolini, eccezionale critico, nel 1956, definendolo “maestro in ombra” della poesia italiana del Novecento, accanto a Camillo Sbarbaro e al giovane Palazzeschi in versi: rimasti in ombra perché “fuori della storia” e visti troppo presto come dei sopravvissuti perché lasciati fuori prima dalla “restaurazione” neoclassicistica operata dalla “Ronda” (Cecchi, Cardarelli) e poi dall’instaurazione del regime stilistico (tardo o neosimbolista) dell’Ermetismo. Per la nuda, emozionata disperazione di Sbarbaro, per il ludico, aereo nichilismo di Palazzeschi, per il moralismo violentemente, inusitatamente espressionistico di Rebora, già negli anni Venti non c’era più posto. È chiaro invece che Rebora serviva a Pasolini e alla sua polemica antiermetica che puntava sul poemetto apertamente autobiografico, ideologico e realistico-sperimentale. Eppure Pasolini salvava Rebora non solo per il suo espressionismo ma per la sua conversione cristiana e il suo ingresso nell’ordine rosminiano. Il giudizio di Pasolini su Rebora è perentorio e sorprendente soprattutto per i termini in cui è formulato: «A differenza di Sbarbaro, la cui metafisica – l’interiore malinconia – lo preserva, necessariamente, dall’impegno col mondo; a differenza di Palazzeschi, che ne è preservato dalla sua evasività, a differenza, insomma, degli eccentrici, che ne sono preservati tout court dalla ’vita’ – Rèbora trova proprio in ciò che lo preserva, Dio, ciò che lo obbliga a impegnarsi, la Chiesa». Nello stesso 1956, sempre in occasione dell’uscita dei tardi Canti dell’infermità, un altro giovane poeta antiermetico, Giovanni Giudici, scrive due articoli, il primo dei quali esce con il titolo «Ritorna Clemente Rebora dopo trent’anni di assenza». Giudici insiste poco dopo con altri due articoli mostrando di trovare in Rebora, accanto a Saba, un precedente, un esempio di cui aveva bisogno per quello che sarà da allora in poi, in alternativa a quello di Pasolini, lo stile narrativo e lirico-confessionale più sapientemente costruito del secondo Novecento. 
La riscoperta di Rebora però non riguarda solo due trentenni come Pasolini e Giudici. Sia Giorgio Caproni che Carlo Betocchi (un coetaneo di Montale) e poi Franco Fortini si mostreranno in grande sintonia con le laceranti inquietudini morali e intellettuali di Rebora, anche per loro un grande maestro. 
Insomma, chi a metà Novecento ha sentito il bisogno di contestare la centralità dell’ermetismo, non poteva che incontrare Rebora. In effetti è proprio con la sua poesia in versi e in prosa, soprattutto con il suo libro più compiuto e compatto, i Frammenti lirici usciti per le edizioni della “Voce” nel 1913, che il primo Novecento rivela più chiaramente le sue violente potenzialità distruttive, le sue ansie attivistiche e progettuali, la concomitanza di disperazioni personali e speranze palingenetiche. Rebora è un poeta sia esasperatamente intellettualistico che pesantemente fisico e corporale, fino a una sgomenta visione materialistica di fronte alle metamorfosi del corpo e alle potenti manifestazioni della natura. È ovvio che per trovare antecedenti al suo stile si ricorresse ai nomi di Dante e di Leopardi, i due maggiori poeti filosofi e poeti morali della nostra letteratura. Nel saggio «Per un Leopardi mal noto», scritto a venticinque anni nel 1910, Rebora richiama l’attenzione su queste parole di Leopardi: «una lingua è tanto più atta alla più squisita eleganza e nobiltà del parlare il più elevato e dello stile più sublime, quanto più la sua indole è più popolare». 
Di questa mescolanza o meglio coincidenza di sublime e di popolare (evidentemente rintracciabile anche e soprattutto in Dante) è certo che la poesia di Rebora aveva bisogno. Si trattava, come scrisse nel medesimo saggio, della necessità, per ogni arte, di tenersi lontano sia da «una fredda e infeconda e ambiziosa astruseria» quanto da «una corrotta facilità bassa», riprendendo invece contatto con la «vita universa del tempo loro». Rebora scrivendo cercò di fare questo, sebbene non sia stato molto apprezzato e capito dai suoi coetanei: non da Emilio Cecchi né da Giuseppe Prezzolini, che pure lo pubblicò. Scrive Gianfranco Contini che Rebora «fu non solo un testimone, ma un interprete adeguato del suo momento, il decennio intorno alla prima guerra mondiale», ciò che ha fatto di lui una delle «personalità importanti dell’espressionismo europeo». È esattamente quella di espressionismo, teorizzata e promossa da Contini, la categoria formale più usata per definire Rebora. E ovviamente non si tratta solo di forma, di meccanica testuale. Quella forma descrive una situazione, esprime un modo di viverla e di affrontarla. Non è certo un caso se un critico e poeta come Franco Fortini ha dedicato a Rebora uno dei capitoli più impegnati e coinvolti del suo libro I poeti del Novecento. La potente lacerazione verbale in cui l’espressione è scomposta e ricomposta, viene interpretata da Fortini come l’equivalente stilistico di un “dissidio storico” e come conflitto che si riverbera in un paradossale autobiografismo che elimina l’io e tende all’anonimato, alla collettività, all’astrazione e alla fisicità che dominano storicamente e materialmente i destini umani. È da questo eccesso di tensioni plurime che Rebora esce rinnegando se stesso come scrittore per dedicarsi, dagli anni Trenta in poi, alla preghiera e al servizio di Dio e degli altri. 
Poeta antipoetico del conflitto e delle antitesi (fra spirito e materia, campagna e città, pace e guerra, lavoro e ideali, angoscia e fede) nel giovane Rebora c’erano in sintesi estrema, più che in ogni altro poeta italiano di primo Novecento, tutte le potenzialità per lo sviluppo di una poesia morale e di pensiero come è stata quella, per esempio, di Eliot e di Auden, e che più tardi, neppure in Fortini o in Pasolini, è mai davvero maturata.
(Clemente Rebora, Poesie, prose e traduzioni, a cura di Adele Dei, Meridiano Mondadori, Milano pagg. CXXXIII-1329, € 68)