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 2016  febbraio 28 Domenica calendario

I numeri del commercio mondiale devono farci paura

Svalutazioni competitive, guerra delle valute… Potrebbe presto rivelarsi tutto inutile. Adeguate o meno che siano quei concetti, forse troppo enfatici, per descrivere le strategie monetarie degli ultimi anni – ma è vero che molte banche centrali hanno almeno sperato in un deprezzamento della valuta per sostenere le esportazioni e spingere i prezzi – gli ultimi dati sul commercio internazionale rivelano che è sempre più difficile contare sulla domanda estera per rivitalizzare le singole economie.
Gli ultimi mesi del 2015, ricostruiti dal World Trade Monitor del Netherlands Bureau of Economic Policy Analysis hanno rilevato una tendenza al rallentamento del commercio mondiale. A maggio 2015, l’interscambio globale di beni, in volume, ha subìto un crollo – fino ai livelli (destagionalizzati) di giugno 2014. Il recupero successivo, altrettanto rapido, si è però mosso – apparentemente, vista l’esiguità dei dati – su un sentiero più lento. A venir meno sono state soprattutto importazioni ed esportazioni dei paesi emergenti.
Non è del tutto una sorpresa. La ripresa dei paesi avanzati è stata debole: le importazioni degli Stati Uniti dopo un rapido incremento, hanno invertito la tendenza, quelle del Giappone hanno iniziato a rallentare già a inizio 2014 (con una timidissima accelerazione negli ultimi mesi del 2015) e quelle di Eurolandia sono cresciute a un ritmo stabile e lento per tutto l’anno. A soffrire sono state soprattutto le economie dell’Asia, che hanno subìto un deciso rallentamento delle esportazioni, poi degenerato in piena flessione. A fronte di questa frenata della domanda estera, oltre che a causa di difficoltà interne, le importazioni degli emergenti hanno rallentato a loro volta, e le esportazioni degli Stati Uniti dopo aver raggiunto un picco ad aprile sono calate, mentre la crescita di quelle di Giappone ed Eurolandia, già non particolarmente vivaci malgrado le politiche monetarie ultraespansive, ha frenato. 
L’ultimo rapporto globale della Wto, l’Organizzazione mondiale del commercio di Ginevra, aveva del resto già segnalato, sulla base di dati più ampi, un inizio 2015 relativamente debole, con ritmi di crescita lenti e analoghi a quelli del 2014; e aveva sottolineato anche i rischi, per il commercio mondiale e in particolare per le economie emergenti, posti da un altro fattore: l’aumento dei tassi Usa, in parte anticipati dal mercato valutario con ampio anticipo. 
Le tendenze che emergono dai dati del World Trade Monitor, se dovessero proseguire durante il 2016, metterebbero ulteriormente in difficoltà le politiche monetarie, finora il fulcro della gestione della domanda in tutto il mondo. La politica fiscale ha infatti incontrato limiti economici e vincoli normativi che ne limitano la portata, teoricamente non trascurabile soprattutto in momenti di difficoltà; mentre le riforme strutturali, come ha ricordato venerdì il rapporto Going for Growth 2016 dell’Ocse, non danno risultati rilevanti se non quando la domanda interna è piena.
Molte banche centrali – tra queste la Banca centrale europea e la Nippon Ginko – hanno però puntato molto anche sul deprezzamento della propria valuta per sostenere le esportazioni e spingere i prezzi, ovunque molto lenti. In assenza di una robusta domanda estera, la strategia ha dato risultati deludenti, creando una situazione in cui nessun paese – forse neanche gli Stati Uniti – può permettersi una politica monetaria restrittiva e un apprezzamento della valuta. Né d’altra parte si può pensare che tutti possano svalutare… Non solo: un’ipotetica gara tra politiche monetarie, già ora lontani da ogni standard di normalità, per ottenere un marginale vantaggio sui cambi potrebbe dare risultati scarsi e avere costi molto elevati.
In una situazione del genere un coordinamento tra le politiche economiche del G20 è auspicato da molti, ma – anche se diventasse realtà – non è detto che potrebbe dare risultati importanti. Comincia infatti a emergere l’ipotesi, non priva di qualche verifica empirica, che il problema dell’economia globale – crescita lenta e prezzi bassi – non sia da cercare sul lato della domanda, ma sul lato dell’offerta, diventata – con la globalizzazione e la delocalizzazione – eccessiva. Il fenomeno è evidente su petrolio e materie prime, e probabilmente anche per sul mercato del lavoro – sul quale incide anche la tecnologia – ma non mancano segnali anche nel settore manifatturiero. Secondo un’analisi della Oxford Economics, l’inflazione annua dei prezzi alla produzione è stata di 0,50 punti più bassa di quella dei prezzi al consumo fin dall’inizio degli anni 90.