La Stampa, 28 febbraio 2016
In morte di Carla Cerati
Che rapporto c’è tra la foto del ricoverato in manicomio, che a capo reclinato si stringe la testa con entrambi i palmi, e le due signore sdraiate sul divano, che ridono all’inaugurazione del negozio di Willy Rizzo e Nucci Valsecchi a Milano? Le ha scattate la stessa mano e lo stesso occhio, quelli di Carla Cerati, e probabilmente a poco tempo di distanza: la prima immagine figura in Morire di classe di Franco e Franca Basaglia, uscito nel 1969 presso Einaudi; la seconda è uno degli scatti di Mondo cocktail del 1974.
Carla Cerati, scomparsa alle soglie degli 89 anni una settimana fa (ma la notizia è stata data dai famigliari a funerali avvenuti), è stata una straordinaria fotografa che ha saputo cogliere con il suo sguardo intenso ed efficace molti aspetti della realtà contemporanea. Nata a Bergamo nel 1926, si era sposata giovanissima e aveva avuto due figli da Roberto Cerati, mitico direttore commerciale dell’Einaudi, braccio destro di Giulio. Donna inquieta e insieme risoluta, da ragazza aveva pensato di fare la scultrice. Solo nel 1960 si era messa a scattare foto con una macchina vendutagli dal padre.
Il mondo del teatro l’aveva attirata dapprima, ma aveva contemporaneamente cominciato a fotografare Milano, la sua città, nel momento della grande mutazione (Milano metamorfosi). Fotografa, ma anche scrittrice di quattordici romanzi a partire dagli Anni Settanta, trascinata da quel fiume in piena che è stata la sua città dopo il Sessantotto, ha guardato con il suo obiettivo quasi tutto quello che è accaduto, dalla contestazione alle manifestazioni operaie, dal processo Calabresi alle lotte delle donne.
Carla Cerati possedeva uno sguardo allegro e insieme dolente; attirata dal dolore degli altri, era però capace di leggerezza. Le sue foto non sono mai spensierate, e tuttavia neppure troppo pensose, colgono la vita che fugge in un gesto, in un movimento, in una posa. Fissano istanti, quando anche la fotografia è fatta d’istanti; il suo è un istante di un istante. Qualcosa che corre via, e tuttavia resta negli occhi, nei suoi, e dunque anche nei nostri, dal momento che lo ha fissato per un attimo. Ha seguito il Living Theater dal 1967, e ha fatto la fotoreporter, collaborando a tantissime testate in Italia come all’estero, fino ad arrivare a fotografare i corpi di donne negli Anni Settanta raccolti nel libro Forma di donna, e le performance di danza di Valeria Magli negli Anni Ottanta e Novanta.
Da tempo sosteneva di aver smesso di fotografare il mondo intorno a lei, si dedicava alla scrittura, ma per capire che non era così basta guardare un autoscatto del 2004, dove si è ritratta su un divano con l’immancabile taglio a caschetto, in interno borghese, dove offre al suo stesso sguardo differito un’espressione interrogativa. Era rimasta l’indomita ragazza, che s’interroga sul mondo, e che crede di aver afferrato, almeno per un momento, il senso delle cose fissando Calvino in vacanza, Vittorini in una libreria, Roland Barthes con il sigaro in bocca, i matti di Basaglia o i suoi amici fotografi.
Non ha avuto molto dalla critica, e quasi niente dal mondo dell’arte e delle mostre. Una recente a Reggio Emilia per «Fotografia europea» ha fatto finalmente vedere a un pubblico ampio quanto fosse brava e originale, quasi una cronista che sa cogliere in presa diretta tic e manie della gente, che guarda senza giudicare, che è discreta e profonda insieme, che è una grande fotografa donna, sostantivo pregnante nel suo caso e davvero assoluto.