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 2016  febbraio 28 Domenica calendario

Chiedere flessibilità è inutile se non si torna a crescere

Pier Carlo Padoan e Pierre Moscovici stanno per tornare a sedersi per parlare del bilancio dell’Italia, con una novità sostanziale in più: il ministro dell’Economia e il commissario Ue agli Affari economici hanno ricevuto una sorta di mandato dei loro superiori diretti, Matteo Renzi e Jean-Claude Juncker, ad accordarsi perché l’Italia eviti una procedura europea per colpa del suo deficit.  
In realtà sono settimane che questo confronto si snoda dietro le quinte, tanto che il profilo di un compromesso è già emerso. Per quest’anno 2016 l’Italia dovrebbe accettare di limare il disavanzo dal 2,5% del prodotto lordo (Pil) fino al 2,35% – in teoria circa due miliardi in meno – però senza una vera e propria manovra correttiva; sul 2017 invece il governo Renzi dovrebbe rinunciare a certi tagli di tasse previsti sulle imprese o, meglio ancora, dovrebbe coprirli con risparmi o altre imposte in modo che il deficit dello Stato non superi l’1,7% o 1,8% del Pil.  
Su niente di questo pacchetto dosato al secondo decimale – malgrado le sfuriate del premier sui «professionisti dello zero virgola» – c’è un accordo chiuso. Le risorse da trovare per l’anno prossimo sono ancora molto grandi. Resta solo la disponibilità espressa da Juncker venerdì a evitare di mettere l’Italia nella gabbia di una procedura europea, se solo sarà legalmente possibile. L’unico dubbio che potrebbe paralizzare Padoan e Moscovici in questo ultimo tratto di negoziato da coprire insieme è altrove. Ed è sostanziale: nessuno dei valori di disavanzo sui quali l’Italia e la Commissione Ue stanno lavorando ha molte probabilità di realizzarsi. Ancora prima che l’inchiostro si asciughi su un accordo, quei numeri sembrano decisamente ottimistici e destinati a restare sulla carta. 
Padoan e Moscovici, Renzi e Juncker lo sanno già. L’economia italiana è entrata nel 2016 a un ritmo nettamente più lento di quello delle previsioni sulle quali è basato l’intero impianto del bilancio. Il governo ha stimato le entrate e le spese dello Stato immaginando che la crescita sarebbe arrivata allo 0,9% nel 2015 e all’1,6% nel 2016; l’anno passato però l’economia si è espansa al massimo dello 0,7% e per il 2016 l’Ocse, il centro di analisi di Parigi, prevede un altro anno deludente all’1,1% a causa di una frenata già evidente della ripresa. 
Se confermati, questi numeri dicono che il deficit sta salendo verso quota 2,8% del Pil o anche oltre, nel caso (plausibile) in cui la crescita sia anche minore di quanto pensi l’Ocse. A questo punto per l’Italia può diventare molto costoso contenere il disavanzo al 2,35% del Pil quest’anno, benché sia su questa soglia che oggi si sta negoziando fra Roma e Bruxelles.  
Si entra così in uno scenario dal sapore di déjà vu: se vuole centrare gli obiettivi e mantenere gli impegni, il governo italiano rischia di trovarsi sotto pressione in Europa perché attui una stretta di bilancio – più tasse o meno spese – proprio mentre l’economia rallenta. Sarebbe il modo migliore per togliere ossigeno alla ripresa partita un anno fa.  In parte Renzi e Padoan possono dare la colpa a un processo di contabilità nazionale che nel resto d’Europa ha pochi simili e palesemente non funziona. Il governo aggiusta le previsioni di crescita almeno due volte l’anno, e su questa base continua a modificare il bilancio in corso di esercizio. Nel 2015 sono state messe in conto nuove spese giustificandole con nuove stime sull’economia, rivelatesi subito dopo troppo positive. D’altra parte però la difficoltà a far quadrare i conti deriva anche da una frenata dell’economia internazionale che l’Italia, come altri Paesi, può solo subire. Renzi lo ha capito. Venerdì ha detto a Juncker che per il suo governo fanno testo le regole europee di bilancio riassunte dalla Commissione Ue circa un anno fa: lì si prevede una certa tolleranza sul deficit nel caso di una «caduta» dell’economia. Così l’Italia sottolinea che sarebbe autolesionistico correggere di nuovo i conti pubblici in senso recessivo proprio quando la ripresa rallenta, e si appella alla Commissione Ue perché riconosca che una strategia del genere è legittima.  
Non è chiaro come finirà, ma di certo conterà il confronto con altri Paesi. Dai picchi di disavanzo del 2009 l’Irlanda per esempio ha ridotto il deficit del 10,9% del Pil; la Spagna del 6,6%; il Portogallo del 6%; la Francia del 3,8%; l’Italia solo dell’1,7%. Siamo il Paese che ha risanato di meno, rispetto al punto di partenza. Il motivo è che l’economia italiana è quella che è andata peggio in questo gruppo di Paesi dai conti in disordine: si è contratta di più del 7%, più della Spagna o del Portogallo, mentre Irlanda e Francia sono cresciute. Senza un sistema produttivo vitale è difficile crescere e far quadrare i conti, ed è esattamente quanto manca in Italia.  Questo rimanda a ciò che la Commissione Ue vorrebbe veramente vedere, prima di dare il suo disco verde a Renzi: una nuova, vera, efficace riforma in grado di mettere l’economia in condizioni di camminare meglio in futuro. Da Bruxelles proprio in questi giorni si è indicato esplicitamente lo spostamento della contrattazione salariale sempre di più verso il livello dei territori e delle singole aziende. Senza questa svolta il Jobs act resta una costruzione a metà, priva di una gamba essenziale. La scelta, ora più che mai, è nelle mani del premier.