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 2016  febbraio 28 Domenica calendario

Cinque cose da fare per evitare di stilare fra due anni l’elenco delle occasioni perdute

Nel secondo anno del governo Renzi abbiamo ricominciato, seppur lentamente, a crescere e la disoccupazione, anch’essa lentamente, a scendere: non accadeva dal 2011. All’inizio di quest’anno però, la ripresa economica sembra essersi di nuovo arrestata. L’indiceche misura le attese dei responsabili acquisti delle aziende manifatturiere, dopo mesi di miglioramento, in gennaio è peggiorato. In gran parte dipende da fattori internazionali: il crollo del prezzo del petrolio, la crisi in Cina, Turchia, Brasile.È tutta l’area euro che rallenta, non solo noi. Ma l’esaurirsi dello slancio riformatore che aveva caratterizzato i primi mesi di questo governo non ha aiutato.  Mancano due anni alle prossime elezioni. Il rischio è che il presidente del Consiglio proceda a vista: oggi preoccupato delle amministrative di primavera, poi del referendum costituzionale d’autunno, poi delle successive amministrative e così via fino alle elezioni del 2018. Che sempre più i provvedimenti abbiano un obiettivo elettorale e lo spirito del Jobs act vada perduto. Poiché vorrei evitare di stilare fra due anni l’elenco delle occasioni perdute, meglio chiarire subito le cose che si potrebbero fare.  

Mettere in sicurezza le banche. 
C’è un’opinione diffusa, fuori d’Italia, che le nostre banche abbiano troppo poco capitale e che questo sia uno dei motivi per cui gli investimenti languono e così anche la crescita.  È un’opinione che tiene lontani investitori internazionali che invece potrebbero contribuire a rafforzare il capitale delle banche italiane. La realtà è in parte diversa: gli istituti maggiori hanno tutto il capitale necessario, ma i più piccoli no. E poi c’è un’eccezione molto visibile, che spiega quell’opinione diffusa: il Monte dei Paschi di Siena. Per fugare l’ombra che si stende sulle nostre banche bisogna mettere in sicurezza il Monte. Servono circa dieci miliardi di euro. È escluso che vi siano investitori privati disposti a metterceli e sarebbe un delitto indurre le banche maggiori a farlo mettendone a rischio la solidità. Lo Stato sarebbe potuto intervenire quando ancora le regole europee lo consentivano, ma non lo fece. L’unica strada rimasta è usare la Cassa depositi e prestiti, un’istituzione di fatto pubblica (il maggior azionista è il ministero dell’Economia) ma che le regole europee considerano privata perché una quota di minoranza è posseduta dalle fondazioni bancarie. Per mettere dieci miliardi nel Monte la Cassa deve però vendere una parte delle sue partecipazioni in Eni, Snam, Terna, Fincantieri. Almeno temporaneamente, perché il Monte risanato fra qualche anno potrà essere venduto, come fece il governo di Londra dopo aver nazionalizzato Lloyds e Royal Bank of Scotland. Non farlo per l’orgoglio di non perdere il controllo delle aziende di cui Cdp è il maggiore azionista sarebbe una decisione poco lungimirante. 

Abbassare la pressione fiscale
Il governo Renzi ha redistribuito in modo più equo il peso delle tasse, ma la pressione fiscale complessiva è ferma al 43% dal 2014. Non sorprende che dai sondaggi gli italiani non sembrino essersi accorti della riduzione delle tasse. Incombono sul 2017 le cosiddette «clausole di salvaguardia» che comportano, se dovessero essere attivate, un aumento dell’Iva pari a 17 miliardi, che eleverebbe la pressione fiscale di un punto. E lo farebbe in modo particolarmente costoso essendo l’Iva una delle imposte con gli effetti più negativi sulla crescita. Trovare nella prossima legge di Stabilità lo spazio per cancellare l’aumento dell’Iva non è sufficiente in quanto la pressione fiscale rimarrebbe invariata. Occorre fare di più: ridurre le tasse alle imprese intervenendo sull’Ires e sull’Irap, puntando a eliminarla, e trasformare il sussidio temporaneo ai nuovi contratti a tempo indeterminato in un taglio permanente del cuneo fiscale, come proposto dal nuovo sottosegretario a Palazzo Chigi, Tommaso Nannicini. Alberto Alesina e io sosteniamo da due anni che le tasse vanno abbassate anche se questo comportasse un deficit temporaneamente superiore al 3% e l’apertura di una procedura di infrazione da parte della Commissione europea. 
Se si vuole fare una battaglia con Bruxelles bisogna che ne valga la pena: per abbassare la pressione fiscale di due punti sì, per uno zero virgola francamente no. Il problema non è Bruxelles (i deficit di Francia e Spagna sono al di là del 4% da anni), ma la reazione dei mercati. Per convincere gli investitori internazionali che questo non segnerebbe il passaggio alla finanza allegra (che pagheremmo con maggiori interessi sul debito) ma l’avvio di una nuova strategia di crescita, è necessario accompagnare la riduzione delle tasse con un programma di corrispondenti tagli di spesa da attuare in un triennio. Tagli netti, non, come è avvenuto quest’anno, tagli per 25 miliardi compensati da 20 di maggiori spese. E qualcosa di concreto va fatto subito, altrimenti al programma di tagli nessun crederà. Ad esempio anticipando già quest’anno una riduzione drastica delle 8mila società municipalizzate e la chiusura di quelle senza dipendenti e con fatturati ridotti, come proposto in autunno da Roberto Perotti. Risorse possono arrivare anche dalla revisione del prezzo di alcuni servizi (come l’università) che lo Stato offre sotto costo a tutti, indipendentemente dal reddito. Ventidue anni fa, Berlusconi, arrivato al governo con la promessa di tagliare le tasse non ebbe il coraggio di sfidare il suo ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, contrario ad abbassare, almeno subito, la pressione fiscale. Il risultato fu che le tasse, nel ventennio berlusconiano, non scesero mai.
 
Investimenti pubblici 
Per sette anni, fra il 2008 e il 2014, gli investimenti totali, pubblici più privati, sono caduti del 5% l’anno. La caduta ora si è fermata, ma una ripresa ancora non si vede. Il risultato è che la quota degli investimenti sul Pil è scesa dal 22 al 15%. In una situazione di perdurante incertezza il taglio delle tasse potrebbe non essere sufficiente per convincere le imprese ad investire. Occorre un’azione specifica sugli investimenti, anche quelli pubblici. Con tassi di interesse trentennali inferiori al 2% molte opere si possono finanziare sul mercato, anche quelle che richiedono tempi di realizzazione molto lunghi. Non dimenticando, però, che investire nell’agricoltura e nel turismo al sud preservando (quel che rimane) della bellezza di quel territorio è complementare, non sostitutivo di opere di cui pure il Mezzogiorno ha bisogno. Il problema non sono le risorse finanziarie ma il quadro normativo e soprattutto il rischio di corruzione. Il fatto che si possa costituire una società con pochi euro è il canale per infiltrazioni mafiose negli appalti. Per evitarlo basta imitare ciò che avviene con successo negli Stati Uniti: richiedere che chi partecipa a una gara si doti di un’assicurazione, un cosiddetto performance bond. Così che siano le compagnie di assicurazione (che hanno un incentivo a farlo con scrupolo) a filtrare i partecipanti alle gare. 
Poiché in Italia (nonostante esista una legge che lo consente) questo pare impossibile (non si capisce perché, forse proprio perché ostacolerebbe la corruzione) si potrebbe cominciare con l’imporre alle società che partecipano a una gara un requisito di capitale proporzionale al valore dell’appalto. E poi dotarsi di controllori indipendenti, impedendo, come accade nel resto del mondo, che il general contractor sia anche responsabile dei controlli sull’esecuzione dei lavori. 


I rentiers non sono solo i sindacalisti 
Ci sono anche i rentiers veri che questo governo si guarda bene dal disturbare. L’esitazione in tema di concorrenza è una delle cose che più colpisce in un governo che tanto parla di modernità. E intanto consente che le mille lobby che difendono i loro privilegi smantellino in Parlamento la legge sulla concorrenza – già era un testo all’acqua di rosa. Se approvata con gli emendamenti che il Parlamento vi ha introdotto, la legge continuerebbe a vietare agli avvocati di costituire società di capitali, l’unico modo per svecchiare una professione che è tra le più atrofizzate in Europa. Non consentirebbe alle parafarmacie di vendere medicinali di Fascia C. Nella lotta senza quartiere alla share economy, di cui si servono milioni di consumatori, è spuntato un emendamento che proibirebbe ai soggetti che non svolgono attività alberghiera (leggi: Airbnb) di utilizzare non solo nell’insegna o nella ragione sociale ma anche in «qualsiasi forma di comunicazione al pubblico», incluso Internet, «parole o locuzioni, anche in lingua straniera, idonee ad indurre confusione sulla legittimazione allo svolgimento della stessa». «Neanche la Polizia del Pensiero di George Orwell avrebbe mai pensato di prendersela con gli affittacamere», ha notato Alessandro Denicola ( la Repubblica, 24 febbraio). Dato che ha dimestichezza con i maxi-emendamenti, il governo dovrebbe proporne uno che riporti questa legge al testo che esso stesso varò un anno fa. Meglio ancora al testo che il ministro per lo Sviluppo economico propose e che il Consiglio dei ministri annacquò. 

Rafforzare le Autorità indipendenti 
Autorità forti e indipendenti dalla politica – e soprattutto dai ministeri – sono il cardine della concorrenza. Invece, con il passare degli anni, la qualità del personale preposto alle Autorità è peggiorato. Si è instaurato un balletto, anche se su questo il governo Renzi ha migliorato, per cui essere membri del consiglio di un’Autorità è diventato un impiego a tempo indeterminato grazie al passaggio da un’Autorità all’altra indipendentemente dalle competenze.  Affrontando questa riforma potrebbe anche essere opportuno ripensare, con la cautela necessaria, i compiti di Banca d’Italia e Consob valutando la creazione di un’Autorità indipendente per la tutela dei risparmiatori, separata da quella preposta a regolare mercati e società quotate. «Non esistono più le super pillole teoriche di un tempo. I manualetti delle istruzioni con tutte le domande e tutte le risposte» obietterà Giuliano Da Empoli, il teorico del renzismo ( Il Foglio, 26 febbraio). Il sospetto è che questa formula nasconda in realtà l’incapacità di indicare con chiarezza quali obiettivi si vuole raggiungere da qui al termine della legislatura. Navigare a vista è più semplice, e forse elettoralmente più vantaggioso, rispetto al perseguire un ambizioso progetto di riforma del Paese. Ma è un lusso che non ci è più concesso.