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 2016  febbraio 27 Sabato calendario

Il Venezuela sta per fallire. Colpa del petrolio a prezzi stracciati

Nel pianeta del petrolio vengono estratti ogni giorno 2 milioni di barili di troppo, e questo può finire in tre modi. Il Dipartimento americano dell’Energia prevede che la forbice fra domanda e offerta si chiuda spontaneamente all’inizio del 2017, grazie a un lieve aumento della domanda globale e a un calo graduale della produzione di «shale oil» negli Usa, ormai fuori mercato ai prezzi attuali. Basta lasciare andare le cose come vanno, e questo farà ripartire il prezzo del greggio. Ma in alternativa potrebbe servire anche meno di un anno se l’Opec, la Russia e altri Paesi trovassero un accordo per tagliare la produzione (ipotesi improbabile). Oppure, terza soluzione, il mercato potrebbe essere riequilibrato con la violenza dalla bancarotta di uno dei grandi Paesi produttori. Al momento il più indiziato è il Venezuela.
Il Paese produce 3,3 milioni di barili al giorno ma è in difficoltà perché il suo mix di petrolio è più pesante, più costoso da estrarre e da raffinare e meno pregiato della media globale e regge con più difficoltà il crollo del barile a 30 dollari. Quello che può far saltare tutto è il debito estero, non grandissimo in assoluto (120 miliardi di dollari) ma difficile da sostenere. Le riserve di valuta estera del Venezuela sono scese a 14,5 miliardi e solo nei primi due mesi sono stati bruciati 1,8 miliardi. Gli introiti petroliferi sono attesi in calo a 22 miliardi nel 2016 (-40%). Il Pil è stimato a -8% e il deficit extra del bilancio pubblico sarà di 30 miliardi di dollari.
Pagare le rate del debito è sempre più difficile e il governo di Caracas sta imponendo sacrifici draconiani per riuscirci. Lo spettro è un crac di tipo argentino, che porterebbe i creditori internazionali a intentare cause legali e a rivalersi sui beni del Venezuela come capitò con quelli di Buenos Aires. Ma il Venezuela ha molto più da perdere: filiali estere della sua compagnia petrolifera nazionale, navi petroliere, tre raffinerie negli Stati Uniti. Il valore complessivo di queste partecipazioni è di 31 miliardi di dollari. Perdere tutto questo sarebbe un incubo. Perciò a gennaio il governo di Caracas ha ridotto dell’87% per cento persino le importazioni di beni indispensabili come cibo e medicinali, pur di risparmiare valuta estera. Ma questo può non bastare a evitare la catastrofe.
Se il Venezuela fa crac si riequilibrerà il mercato mondiale del petrolio? Sì, in caso estremo, se a un certo punto il governo non riuscirà neanche più a pagare gli stipendi a chi lavora alle trivelle; sarebbe una tragedia sociale, ma non è da escludere visti i numeri. Potrebbe succedere in Venezuela o anche in Nigeria o altrove.
Per questo Caracas è attivissima a sostenere l’intesa per limitare la produzione del petrolio (e rilanciare il prezzo del barile) che stanno tentando l’Arabia Saudita, la Russia e altri Paesi: la mera possibilità di questo difficilissimo accordo ha fatto risalire di qualche dollaro la quotazione del greggio. Il Venezuela spera.
Senza clamore continua l’agonia dello «shale oil» americano. In settimana la compagnia Whiting, numero uno in North Dakota, ha sospeso le attività di fratturazione, e la Cheasapeake ha annunciato tagli severi. Negli Usa il numero totale delle trivelle è sceso a 502, contro 1609 due anni fa.