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 2016  febbraio 27 Sabato calendario

Un aperitivo tutti soli per Renzi e Juncker. Che si saranno detti?

Al momento dell’aperitivo, prima di sedersi a tavola con le rispettive delegazioni, improvvisamente quei due sono spariti. Per mezz’ora, mentre i collaboratori assaggiavano antipasti, Jean-Claude Juncker e Matteo Renzi a Palazzo Chigi hanno parlottato a quattr’occhi. Senza testimoni. Forse semplicemente il presidente della Commissione europea e il premier italiano sono diversi in tutto – età, carattere, tessera di partito – meno che su un punto: sono politici puri entrambi, capiscono la stessa lingua. Di certo ha contato anche il fatto che stavolta c’era ben poco di improvvisato. Gli sherpa delle due parti si erano coordinati fino a tardi la notte prima, il sentiero era battuto. Nessuno ieri poteva permettersi di smarrirlo.
Era la prima visita di Juncker a Roma come leader della Commissione e il suo primo vero colloquio con Renzi da quando fra i due erano volati anche i piatti.
«Professionisti dello zero virgola» e «perversione burocratica» è stato il modo prescelto dal premier per descrivere la Commissione Ue cinque settimane fa. «Renzi ha torto a offenderci a ogni occasione» e «a Roma non ci sono interlocutori» è come Juncker e i suoi avevano risposto poco dopo. «Non ci faremo intimidire» era stata poi la reazione del premier. Trentanove giorni fa.
Ieri i due sono usciti dal loro colloquio distesi e sorridenti, per sedersi a tavola con gli altri. La conversazione con gli staff è potuta iniziare. Da Bruxelles Juncker si era portato una formazione da grande trasferta: l’ormai celebre capo di gabinetto tedesco Martin Selmayr, la sua vice spagnola Clara Martinez-Alberola, la delegata dello staff per l’economia Paulina Dejmek-Hack, il portavoce greco Margaritis Schinas e la sua vice bulgara Nina Andreeva. Niente è stato lasciato al caso. Niente doveva andare storto, in questa giornata di riconciliazione fra due leader accomunati da un disperato bisogno di alleati in Europa. E niente è andato storto.
R enzi ha eseguito alla perfezione il suo piano disegnato in due fasi, Juncker non l’ha mai contrastato. Il premier ha diviso ogni discussione lungo una frontiera precisa. Da un lato le grandi questioni europee sulle quali – ha sostenuto – la Commissione deve dar prova di visione subito per non dover gestire il disfacimento dell’Unione tra non molto. Vale per la crisi dei rifugiati, dove il premier e Juncker si sono trovati d’accordo nel non abbandonare la Grecia a se stessa senza garanzie né diritti di fronte alla pressione degli sbarchi dalla Turchia. Vale per l’Unione bancaria, dove Renzi ha insistito che il sistema oggi è instabile perché manca di una garanzia europea sui depositi e della rete di sicurezza di un vero fondo comune per le gestione dei dissesti. E vale anche sui bilanci pubblici, secondo Renzi, perché la frenata dell’economia globale imporrebbe politiche che non uccidano i consumi e gli investimenti. Quanto a questo, a Bruxelles starebbe maturando l’idea di condonare per tutti i Paesi parte della spesa legata all’emergenza migratoria.
Dall’altra parte però il premier ha messo i problemi specifici dell’Italia. Il risultato è che Juncker e Renzi hanno dato mandato a Pier Carlo Padoan e Pierre Moscovici di gestire e risolvere in fretta i dissapori sul deficit. Che il ministro dell’Economia debba confrontarsi solo con il commissario Ue Moscovici è un segnale nuovo, perché questo francese è più pragmatico del suo collega lettone Valdis Dombrovskis. Oggi le discussioni sul deficit del 2016 ruotano attorno all’idea che l’Italia debba limarlo dal 2,5% al 2,35% del Pil, per evitare una procedura europea. È un lavoro di cesello che rischia di finire travolto dall’ondata di freddo in arrivo dal resto del mondo: se la crescita dell’Italia fosse sotto l’1% – come possibile – il problema sul deficit diventerebbe come evitare di superare la soglia del 3%. Per conquistare margini di manovra conterà molto come la Commissione Ue valuta l’efficacia delle riforme fatte in Italia. ma per ora quella sul lavoro convince Bruxelles più di quella dell’amministrazione.
I due leader poi hanno parlato anche di sussidi pubblici, non solo legati al caso delle acciaierie Ilva. Qui Juncker, ex premier lussemburghese, ha lanciato una battuta: «Ho perseguito fino in fondo i casi di aiuti di Stato anche contro il mio Paese». È come dire che lui non si considera un burocrate, ma un fine politico e un uomo equilibrato. Ma questo, anche in tempo di disgelo con Renzi, non lo induce ad abbassare la guardia per un solo istante.