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 2016  febbraio 27 Sabato calendario

Le leggi cambiano insieme a noi

È stata una navigazione lenta, accidentata. Ma infine la legge sulle unioni civili è approdata in porto, accolta da un doppio squillo di fanfara. E invece no, il viaggio è appena cominciato. Non soltanto perché la navicella dovrà ancora doppiare la boa di Montecitorio, salpando da Palazzo Madama. Soprattutto per un’altra ragione: la vita del diritto non si esaurisce nelle leggi. E del resto nessuna legge appartiene al legislatore che l’aveva concepita. È come un figlio, che quando spalanca gli occhi al mondo decide lui su quali strade incamminarsi, al di là dei desideri paterni. E il mondo del diritto s’intesse di prassi amministrative, applicazioni giudiziarie, sentenze costituzionali, direttive europee. In questo senso nessuna legge è mai per sempre, nemmeno quando sopravviva inalterata per decenni. Perché in quel lasso di tempo giocoforza cambiano i costumi, e il cambiamento carica di nuove assonanze le parole della legge.
Da qui la prima lezione che ci impartisce la vicenda: il Parlamento ha fatto la sua parte, adesso tocca a noi. L’ha fatto con un maxiemendamento scritto dal governo, benché quest’ultimo avesse garantito libertà di coscienza ai senatori. E per giunta votando la fiducia per negare la fedeltà (dei gay), altro sentimento schizofrenico. Ma dopotutto questa è la politica, l’arte del possibile. Si fa quel che si può. O altrimenti si fa, ma non si dice.
Per esempio: sicuro che la nuova disciplina vieti l’adozione del configlio (stepchild adoption)? Dopo lo stralcio della norma che intendeva regolarla, la legge Cirinnà è muta come un pesce. Ma può ben trattarsi di silenzio-assenso, per dirla in giuridichese. Toccherà ai tribunali valutare, caso per caso, coppia per coppia. Loro, d’altronde, già lo fanno, talvolta consentendo l’adozione alle famiglie omosessuali. Giusto così, i giudici si trovano davanti persone in carne e ossa, non gli stereotipi su cui ragiona volentieri la politica. E i giudici sono l’avamposto della società civile, l’antenna che ne diffonde gli umori nel Palazzo.
Poi, certo, anche alla magistratura può capitare d’attardarsi su concezioni superate. Negli Usa accadde alla Corte suprema: benedisse la segregazione razziale per decenni, fino alla sentenza Brown del 1954. In Italia è successo alla Consulta: nel 1961 fece salvo il reato d’adulterio femminile, nel 1968 lo annullò in parte, nel 1969 lo demolì del tutto. Ma in entrambi i casi è stato decisivo un vento d’opinione pubblica – la lotta per i diritti civili dei neri americani, il Sessantotto. Insomma siamo noi, la legge. E i diritti vivono se c’è un popolo che vi s’affezioni, che sappia coltivarli. Ai diritti bisogna voler bene. Negli anni Trenta era in vigore una Costituzione (lo Statuto albertino) che proteggeva la libertà di stampa, di domicilio, di riunione; ma gli italiani, invaghiti del Duce e del fascismo, se n’erano ormai dimenticati. Sicché i diritti diventano di carta, quando nessuno li reclama. Non avviene forse, adesso, con il diritto di voto, mentre un italiano su due diserta l’appuntamento con le urne?
È esattamente questa la vocazione della nostra Carta costituzionale: favorire le diverse stagioni dei diritti, senza ingessarli in un calco normativo. Per raggiungere tale risultato, nel 1947 i costituenti usarono un linguaggio a maglie larghe, una lingua duttile, elastica.
Non a caso, per enunciare i limiti alla libertà di stampa e alla libertà di religione, s’appellarono al «buon costume», concetto che s’apre e chiude come una fisarmonica, in base al soffio dell’ esprit du temps, dello spirito dei tempi. E non a caso l’articolo 29 definisce la famiglia come una «società naturale», dunque indipendente dal diritto, nella sua spontanea evoluzione; mentre non definisce il matrimonio. Per la Consulta (sentenza n. 138 del 2010), quest’ultimo è invece la somma di una mamma e di un papà. Però magari i giudici costituzionali sbagliano di nuovo, sta a noi farli ricredere.
Ecco, è questa la responsabilità che cade su ciascun cittadino. Per esercitarla, dobbiamo ricordare che la costruzione dei diritti è sempre progressiva, non sbuca fuori in un amen come Minerva dalla testa di Giove. Ci abbiamo messo secoli per sbarazzarci dell’autorità sovrana del pater familias, celebrata da Leon Battista Alberti nel primo trattato in volgare della nostra storia letteraria (Della famiglia, 1433-1434).
Merito della Costituzione, poi della riforma del 1975, che adesso la legge Cirinnà riforma daccapo. Ma il merito è soprattutto del popolo italiano.
Siamo stati noi, attraverso i nostri parlamentari, a pretendere il divorzio (nel 1970), poi a trasformarlo in un divorzio breve (nel 2015), tagliando i tempi d’attesa da 5 anni ad appena 6 mesi. E sempre noi, attraverso i nostri giudici, abbiamo smantellato pezzo a pezzo la legge proibizionista sulla fecondazione assistita, con 33 sentenze in 11 anni. Ora tocca alle unioni civili, ma la morale è sempre una: se lasciamo sole le nostre istituzioni, loro ci lasceranno soli.