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 2016  febbraio 26 Venerdì calendario

Croce, il pensatore ignorato centocinquant’anni dopo

Le ricorrenze anniversarie sono pretesto, per solito, di chiacchiere vuote. Ma talvolta offrono l’occasione per guardare con maggiore chiarezza in cose sulle quali non si sia in precedenza avuto occasione di riflettere a sufficienza. A centocinquant’anni dalla nascita, dopo essere stato il protagonista della cultura italiana nella prima metà del secolo ventesimo, e l’oggetto di polemiche aspre nella seconda metà, Croce sembra essere oggi un nome mediamente rispettato e, nella sostanza, un pensatore ignorato. Se si guarda ai filosofi che oggi, in Italia e fuori d’Italia, «hanno il grido», è facile constatare che il suo pensiero sembra essere del tutto uscito dai loro. Se li si legge, fra le molte cose che vi si imparano c’è anche questa, che il suo nome e la sua opera non sono ricordati nemmeno quando forse ricordarli sarebbe necessario e persino doveroso.
LE RAGIONINon so se si tratti di rifiuto (il che importerebbe la volontà di non conoscere quel che tuttavia si conosce), o di ignoranza innocente (perché nata dall’ignoranza). Il fatto resta, e non può, né deve, essere disconosciuto. Esso sta a testimoniare la distanza a cui il pensiero italiano contemporaneo si è posto, e si pone, nei confronti di una delle sue tradizioni possibili: di una tradizione che, beninteso avrebbe potuto rifiutare dopo averla richiamata e discussa, e che invece si è limitato a ignorare. Il che, comunque della cosa si giudichi, non so se sia indizio di vitalità o piuttosto di stanchezza, mentre sembra comunque evidente che quel che qui si constata non è privo di importanza, da un lato per il pensiero italiano contemporaneo, da un altro per Croce; che probabilmente ha ancora lettori affezionati, nonché studiosi variamente importanti della sua opera, ma non occupa più il centro dei pensieri anche se, di tanto in tanto, torna ad alimentare il fuoco di qualche vecchia passione periferica.
LA BATTAGLIADi questo fenomeno non è facile indicare le cause; e credo che, comunque, non si avrebbe ragione, o piena ragione, se si dicesse che, alla fine della guerra, caduto definitivamente il fascismo contro il quale Croce aveva combattuto la sua bella e onorevole battaglia, anche lui cominciò a uscire di scena insieme al suo avversario, quasi che fosse stata la dittatura instaurata in Italia il 3 gennaio del 1925 il piedistallo sul quale egli aveva collocata la sua insegna. In realtà, questa spiegazione è suggestiva, ma insufficiente a spiegare sul serio il perché di quel declino. Non fu tanto la caduta del fascismo a determinare, di per sé, l’appannamento delle fortuna del suo maggiore antagonista liberale. Ma fu essa, bensì, a rivelare che era stata la presenza di quel nemico a tenere unito il fronte di coloro che a Croce si riferivano come a un maestro e a far passare in secondo piano le diffidenze, i dubbi, le insoddisfazioni che ora tornavano a visitare i loro pensieri.
Così, quando dopo il 1945 l’Italia tornò a essere una, e i pensieri cominciarono a circolare e a intrecciarsi fra di loro in modi che per l’innanzi non sarebbero stati concepibili, e nuove idee entrarono nel campo della cultura laica, la posizione che Croce vi aveva occupata nei decenni precedenti si restrinse, e in tempi abbastanza rapidi divenne oggetto di forte contestazione. Se, tuttavia, si vuole che questa spiegazione non resti estrinseca e che, per spiegare il tramonto della egemonia crociana non si ricorra a concetti equivoci o moralistici, ad altro l’attenzione dev’essere diretta. Deve essere diretta in primo luogo a togliere di mezzo questa idea dell’egemonia, che non ebbe mai luogo se alla parola si dà il senso che le conviene, e fu piuttosto una presenza insistente e continua che, in certi casi, piegò al consenso, in altri fu sopportata, ma quasi mai fu condivisa nelle ragioni concettuali che la costituivano.
Se si esclude Gentile che fa storia a sé, la sua filosofia non fu discussa nei suoi fondamenti con la necessaria ampiezza e capacità di comprensione. Nel dir questo, penso, beninteso, agli studiosi che si definivano laici e, in qualche caso, anche esplicitamente crociani; e dal quadro escludo quelli cattolici che, soprattutto se filosofi, a Croce e al suo immanentismo furono, con poche eccezioni, ostilissimi e contribuirono in modo rilevante a negare il titolo di filosofo a uno che, chiuso alla comprensione della trascendenza, filosofo sul serio non poteva essere. Ma, se dalla considerazione della cultura cattolica, estesissima e ben radicata in molta parte delle istituzioni universitarie, si torna a quella della cultura laica, per spiegare la facilità con cui nel dopoguerra questa si distaccò dal modello crociano vorrei riprendere una formula che mi capitò di usare anni fa.
INDIPENDENTETraducendo la lingua della cultura in quella della politica, dissi allora che, in realtà, Croce non era mai stato il capo di un governo, perché il suo ruolo era stato, se mai, quello di capo dell’opposizione, o meglio, e se si preferisce, quello di un pensatore indipendente, non legato a scuole e a interessi accademici: di un libero scrittore che, sebbene non si potesse non ascoltarlo, stava a sé nell’atto in cui non perdeva occasione di criticare, censurare, aprire continui fronti polemici.
È stato presentato spesso come un pensatore moderato: moderato in filosofia, dove non avrebbe avuto l’animo di spingersi con coerenza fino al limite estremo dell’attualismo; moderato in storiografia, sempre avendo evitato di prendere contatto con i momenti della rottura rivoluzionaria per ripiegare su quelli del riflusso conservatore; moderato nell’interpretazione del marxismo, da lui depotenziato dello spirito rivoluzionario e ridotto a canone d’interpretazione storica. E c’è del vero in queste osservazioni. Croce amava la continuità delle opere, e non le rotture rivoluzionarie, diffideva dei profeti. 
Ma, per molti altri versi, sorretta da una straordinaria dottrina, la sua fu, in molti campi, opera eversiva di consolidati giudizi. Intrecciò tesi, prese di posizioni, giudizi, che turbarono non poco il mondo della cultura, vi introdusse motivi di disorientamento e di scandalo, e costrinse molta parte di essa ad assumere posizioni difensive. Fu autore di drastiche dissociazioni. Si pensi, nella critica della poesia e della letteratura, alla dissoluzione dei generi letterari, alla separazione della poesia dall’allegoria e dal simbolo, che recò lo scompiglio nel campo, per esempio, degli studiosi di Dante (ma anche, per esempio, di Goethe) che mai, o quasi, a quel suo radicalismo si adattarono. 
DEMOLIZIONESi pensi altresì alla negazione della filosofia di Leopardi, alla riduzione dei pur ammiratissimiPromessi sposi all’oratoria piuttosto che alla poesia, alla demolizione di tanta parte dell’opera poetica pascoliana, a quella di Pirandello e, con particolare durezza, dell’ultimo D’Annunzio. Si pensi, nella storiografia, alla critica rivolta all’idea dell’unità della storia d’Italia, e, per esempio, all’interpretazione del secolo decimono come introduttivo in Europa, dopo la primavera liberale del primo trentennio, alla decadenza di quei valori e al trionfo dell’irrazionalismo e del totalitarismo. Si pensi alla riduzione del barocco al brutto, e all’intransigente difesa di questa sua idea. Ma si vada, per contro, alle sue brucianti identificazioni filosofiche: della poesia e del linguaggo, dell’intuizione e dell’espressione, della volizione e dell’azione, del diritto e dell’economia, e dell’etica, non tanto con la coscienza dell’individuo, ma con l’agire stesso dello spirito che si realizza nelle opere, attività contro passività.
STORICISMOSi vada all’identificazione del giudizio definitorio e di quello individuale, radice (problematica) del suo modo di intendere lo storicismo. E poi ci sono le tesi sulla storia, da quelle giovanili che la riducevano sotto il concetto generale dell’arte a quelle dell’età matura, che vi indicarono invece l’intreccio delle categorie costitutive del reale, la dissero identica alla filosofia e la definirono come sempre contemporanea nel pensiero che si indaghi in essa. Una tesi alla quale talvolta si torna, non sempre, per la verità, in modo adeguato. Da tutto questo, e molto altro si potrebbe dire, emerge, in Croce, un carattere alternativo a quello della cultura dominante, che credo debba essere messo in luce con più nettezza di quanta se ne sia usata in passato. 
Croce fu un pensatore alternativo, un critico della cultura italiana che non lo accolse mai senza nutrire forti perplessità, pronta, al momento opportuno, a dichiarargli la sua avversione e la sua ostilità: anche perché fu, in senso profondissimo, un pensatore laico, che identicava il cattolicesimo nel passato, in tutte le sue forme, e l’Italia paese laico non è. Se è così, non è per paradosso se si dice che a una parte notevole della cultura italiana, Croce fu estraneo, e che quella fu estranea a lui. Meglio di altri lo avvertì un romanziere, Raffaele La Capria, in belle pagine. Ma la sua intuizione non fu capita e valorizzata, come meritava.
Per finire due cose vanno messe in chiaro. La prima è che, come tutti i filosofi del passato Croce è, o sarà, attuale nel momento in cui, nel rapporto stretto con lui, si accenderà la luce della filosofia e si ragionerà, obbedendo a essa e a niente altro. La seconda è che, se si volesse comprendere qualcosa della nostra storia più recente, leggerlo sarebbe necessario. Ma dubito che, almeno per i prossimi decenni, questo avverrà.