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 2016  febbraio 26 Venerdì calendario

La rivincita di Giorgio Bassani

Tradotto in inglese, anche negli Stati Uniti, in francese, in tedesco, in spagnolo, in catalano, in portoghese, in olandese, in albanese. Non è poco. Una scrittrice anglo-bengalese premio Pulitzer come Jhumpa Lahiri lo cita come autore per lei essenziale, e ne sceglie un verso come epigrafe per il suo ultimo romanzo,  La moglie. Da noi, come al solito, è dato per scontato. Giorgio Bassani, a cent’anni dalla nascita, si riaffaccia timidamente sulla scena letteraria italiana attraverso un numero monografico di 
Nuovi Argomenti 
(il 72, in libreria già dalla fine dello scorso anno): un coro di letture che somigliano a un piccolo risarcimento, per mano di studiosi e critici quasi tutti sotto i cinquanta. È l’omaggio della generazione successiva a quella dei nonni neoavanguardisti: quelli che spararono a zero, mezzo secolo fa, contro i bisnonni degli Anni Dieci.

A smarcarsi in tempo reale dalla polemica contro Bassani e Cassola era stato lo scrittore Enzo Siciliano: ne raccoglie gli interventi più illuminanti un piccolo, prezioso libro per le cure di Antonio Debenedetti (Bassani, Elliot, pp. 96, € 11,50, dal 3 marzo). All’esordio Siciliano ebbe Bassani per editor («Sai in quanto tempo ho letto il tuo libro? In due ore. E dunque: come fare? Il volume è troppo magro, decisamente»); avrebbe ampiamente saldato il debito nei panni di fine interprete dell’opera del maestro. Siciliano rileva le ascendenze – James, il Joyce dei Dubliners, Proust – e fa ruotare l’analisi intorno alla parola «rievocazione». È in gioco la memoria, sì, la memoria che ricompone i nessi scuciti. È in gioco la potenza di una voce che maschera sé stessa in bisbiglio – e magari poi erompe sarcastica e quasi irriconoscibile nelle prove poetiche. 
Il peso del passato
Ma il tempo che Bassani racconta è un tempo davvero perduto? Il passato non è morto – scrive in una pagina di L’odore del fieno -, non muore mai. Il passato si muove, non sta fermo, ci assedia, è un sogno o un incubo da cui pare impossibile svegliarsi. Così l’aria torpida – qualcosa a metà tra nebbia e caligine – che avvolge le sue pagine è effetto di una fatica del risveglio: il presente non è mai davvero libero, è sotto assedio. Se poi il tratto di storia nazionale che ossessiona Bassani è il lustro fra le leggi razziali e la fine della guerra, si capisce che questo passato ha una sua particolare prepotenza, un suo insostenibile peso. Le figurine che tratteggia scavano la normalità quotidiana a gesti piccoli, perpetuano riti rassicuranti in una angoscia che cresce.
«Chissà che splendide merende a base di tè, burro e marmellata, ci avrebbe fornito alle cinque!», esclama soddisfatto il narratore di Dietro la porta. La prosa impeccabile sintatticamente, un italiano morbido e accademico insieme, contribuisce a emanare un sotterraneo senso di allarme che preme sotto la superficie delle cose. Il passato, se gli si sopravvive, seguita a lavorare dentro e addosso ai corpi senza tregua – una bomba a orologeria che può esplodere quasi all’improvviso, come negli Occhiali d’oro - forse il suo capolavoro – e come nell’Airone
Il passo del classico
Ma anche quando la tragedia (privata e collettiva) resta laterale, quasi invisibile, un disagio, un malessere ambiguo insidiano, assalgono anche il più ordinario e borghese dei calendari. Un devastante senso di esclusione, una colpa di cui l’origine sembra perdersi nell’albero genealogico, nelle ombre dei padri. Un velo ci divide da ciò che vorremmo, dovremmo essere e non siamo – e non è detto che sia un segno anagrafico o inerzia morale. È qualcosa di più complesso e insieme più contorto. La quasi certezza che nessuna rivalsa, nessun riscatto avrebbero un effetto su quella ferita originaria, «sanguinante in segreto». La certezza, lampante nel romanzo sull’adolescenza intitolato, non a caso,Dietro la porta - che niente, tanto meno una vendetta, potrebbe guarire quel male senza nome. 
Enigmatico, silenzioso Bassani. L’anti-neorealista che nasce già con il passo di un classico e che paga al tribunale della critica controcorrente l’enorme successo delGiardino dei Finzi-Contini. Eppure anche in quel romanzo che forse è il suo più facile, si accende «la luce di Giorgio Bassani». Così la chiama Eraldo Affinati in una pagina del suo recente L’uomo del futuro (Mondadori), sulle tracce di don Milani. «La stessa poetica dello scrittore ferrarese, il cancello che separa, la lente che scherma, il muro che divide, una finestra da cui la gente osserva, capace di innescare il sentimento di mortificazione tipico di tutti i suoi personaggi, sembra attiva nella tenuta dei Milani, come se da un momento all’altro, dietro la rete, oltre il boschetto rivolto verso l’entrata, potesse sbucare l’affascinante Micol che tende la mano ai ragazzi di fuori come fece con il narratore del Giardino dei Finzi Contini».