Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  febbraio 26 Venerdì calendario

La vicenda dei «superdelegati» democratici che sta alterando in modo assai poco democratico il testa a testa tra Hillary Clinton e Bernie Sanders

Presto sarà tempo di bilanci per Obama. Il campo è già diviso tra chi pensa che, date le circostanze difficili che ha dovuto fronteggiare (economiche dopo lo «tsunami» del 2008, politiche per i veti del Congresso repubblicano e di scenari internazionali sempre più caotici), il presidente democratico ha fatto un ottimo lavoro e chi, invece, considera addirittura disastrosa la sua gestione: declino degli Usa nel mondo, errori strategici che hanno prodotto vuoti colmati dal terrorismo, dialogo fra sordi con la destra.
L’involuzione del partito conservatore finito sotto l’influenza dei radicali dei Tea Party e ora, addirittura, di Donald Trump, ha di certo contribuito a compromettere l’efficacia dell’azione della Casa Bianca, ma nella pagella di Obama rimarrà qualche brutto voto non solo per gli errori commessi da presidente, ma anche per quello che ha fatto – o, meglio, non fatto – da capo del partito democratico.
La vicenda dei «superdelegati» democratici che sta alterando in modo assai poco democratico il testa a testa tra Hillary Clinton e Bernie Sanders fa venire in mente casi nostrani come l’incapacità della sinistra italiana di affrontare il problema del conflitto d’interessi in politica, quando aveva i numeri per farlo. In breve. 35 anni fa i democratici Usa hanno adottato una norma assai poco democratica che riserva il 15% dei delegati che scelgono il candidato alla Casa Bianca alle strutture del partito, sottraendolo agli elettori. Risultato: dopo le prime tre primarie (Iowa, New Hampshire e Nevada) Hillary e Bernie hanno lo stesso numero di delegati votati dagli elettori (52 a 51), ma, in realtà, la Clinton ha un vantaggio abissale (502 a 70) perché 445 dei 712 superdelegati hanno già dichiarato fedeltà alla royal family della sinistra Usa, mentre quelli schierati con Sanders sono solo 18: un rapporto di 1 a 25 tra questi delegati dell’apparato, mentre il voto popolare, per ora, è diviso in parti uguali. E il caso dello Iowa (vittoria per un soffio attribuita a Hillary), contestatissimo anche da osservatori indipendenti, ha dimostrato che il meccanismo dei «caucus» democratici è assai poco trasparente: va riformato. Doveva farlo Obama (che nel 2008 manovrò con abilità e a suo favore i «superdelegati»). Ma le promesse sono rimaste sulla carta. L’unica novità è che Hillary, imparata la lezione, ha assunto Jeffrey Berman: il consulente che fu l’architetto di Obama nella gestione dei superdelegati e dell’organizzazioni dei caucus. E i risultati si vedono.