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 2016  febbraio 26 Venerdì calendario

Roma vista da Rutelli. L’ex sindaco parla della sua città che «si sta decomponendo» e dei candidati al Campidoglio: «Sono amico di tutti loro ma ho un sentimento personale di affetto che mi lega a Giachetti»

«Vuol conoscere il mio movente? Quando attraverso una strada, o passo per un giardino che avevamo realizzato noi, e lo vedo in disfacimento, non mi rassegno. Non ci riesco. Roma è la mia città, qui la mia famiglia ha radici profonde», dice Francesco Rutelli.
Mai dimenticare le radici.
«Parole sante. Domani chiudo il mio intervento alla conferenza internazionale di Londra sui crimini dell’Isis contro i tesori dell’umanità mostrando la foto del monumento a Francesco Crispi distrutto dai bombardamenti del 1945 a Dresda. L’aveva fatto mio bisnonno Mario, lo scultore della fontana delle Naiadi in piazza della Repubblica».
In fin dei conti non c’è molta differenza fra Roma e Palmira. Qui non sono passati i macellai dello stato islamico, ma ce l’hanno messa tutta per distruggerla.
«Si sta decomponendo. Soprattutto, risale quello che Maurizio Ferrara, il vecchio comunista padre di Giuliano, chiamava il ‘fondo limaccioso’ di Roma. Questa città ha una storia strepitosa, ma anche un’anima nera».
Due volte sindaco, e la terza trombato. Perché adesso la vediamo rispuntare, Rutelli?
«Non mi candido, lo sapete».
E allora che senso ha la sua presenza in questa battaglia elettorale che si annuncia la più velenosa della storia?
«Il mio scopo è dire una verità scomoda. Se la politica non mette in campo un governo di statura europea, non c’è speranza».
Allude al pacchetto di mischia preparato con il suo progetto ‘La Prossima Roma’, immagino.
«Questa esperienza ha già prodotto una ventina di personaggi di grande caratura».
Qualche nome.
«L’architetto del padiglione italiano all’Expo Michele Molè, l’ex vice segretario generale del Quirinale Filippo Romano, per esempio. E poi Giampaolo Manzella…»
Il figlio dell’ex senatore del Pd Andrea Manzella. Sbaglio o è un consigliere regionale del partito democratico?
«Lo è. Ma c’è pure Anna Donati…»
Ex parlamentare dei Verdi.
«Già. E poi Enrico Giovannini…»
Il ministro del Lavoro del governo Letta.
«Proprio lui. Insieme a tanti altri giovani e non come Sergio Talamo, Elisabetta Maggini, Fabiana Di Porto, Antonio Preiti, Claudio Rosi…»
Quale ruolo si aspetta che abbiano?
«Quello che ebbe nel 1993 uno come Roberto Giachetti, un ragazzo che si impegnava per la propria città».
C’è la squadra ma senza il candidato. Spera forse che chi vince se la prenda in blocco?
«Mi auguro che i candidati si prendano il nostro programma. E poi certo, che le risorse umane vengano utilizzate».
Giachetti è stato suo capo di gabinetto. Con Guido Bertolaso ha fatto il Giubileo del 2000. Ma ha avuto rapporti anche con Roberto Morassut e Alfio Marchini. Per chi tifa?
«Ho un sentimento personale di affetto che mi lega a Giachetti. Ma sono amico di tutti loro: Morassut, Marchini, Bertolaso…».
Non ci giri intorno.
«La mia funzione non è quella di tifare per qualcuno. Ma di dire a tutti loro che lo stato dell’amministrazione è in profonda decomposizione, che la sfiducia dei cittadini è al massimo, che negli uffici la corruzione è elevatissima. Troppe volte abbiamo visto che chi vince poi non ce la fa. Qui ci vuole un’aggregazione senza precedenti».
Le grandi intese alla vaccinara. I candidati le sembrano all’altezza della sfida?
«Debbono esserlo. Ricordo che nella mia giunta Walter Tocci, che di sicuro non è di destra, chiamò a guidare l’Atac Felice Mortillaro, che i sindacati certo non amavano. Bisogna saper aggregare anche le figure scomode, andare oltre gli schemi. Chi si qualifica al primo turno prenderà un quarto dei voti. Come farà a raddoppiare al ballottaggio?».
A proposito, giudica opportuno che si candidi a sindaco uno come Bertolaso che è sotto processo per corruzione?
«Lui si protesta innocentissimo. Ma bisogna riconoscere che il rischio esiste».
Se la città è allo sbando, ci saranno anche dei colpevoli.
«La colpe sono diffuse, dai politici agli imprenditori. Basta vedere quello che accade alla Camera di commercio, dove non passa giorno senza una lite, un ricorso, una causa…».
Questa è pure una capitale nella quale il principale imprenditore possiede il giornale più importante, costruisce la metropolitana e controlla una quota importante dell’azienda che dà luce, acqua e gas ai romani. È normale?
«La cosa veramente anormale è che oltre a Francesco Gaetano Caltagirone non ce ne siano altri. Il vuoto imprenditoriale è assoluto. Le grandi banche sono andate via, le aziende pubbliche non ci sono più. Siamo nel deserto, salvo le piccole imprese».
Era un’altra Roma, lo so. Dica la verità: non è che non si candida perché ha paura che vada a finire come nel 2008, quando Gianni Alemanno le fece le scarpe al ballottaggio?
«Non ci penso proprio. Ammetto però che quella volta sbagliai a candidarmi. Tutti me lo chiedevano e dovetti accettare. Ma i cicli politico-amministrativi hanno sempre una conclusione e quello era finito».
E il suo ciclo personale, Rutelli, è finito?
«Ho rifiutato diversi incarichi e faccio altre cose molto volentieri. Certo, anche questo mio impegno per Roma è politica, anche se in una forma diversa. Per il resto, niente si può escludere».
Chi farà il sindaco di Roma?
«È un rebus. Ma le assicuro che non voterò nessun sindaco che non presenti in campagna elettorale una squadra all’altezza formata da cento persone».