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 2016  febbraio 25 Giovedì calendario

Raffaella Carrà non passa mai di moda

Caschetto biondo come l’oro bianco, completi attillati ultra-plasticosi, il sorriso eterno che pare costruito in laboratorio, gli occhi sempre spalancati come due fari di luce accecante: detto così, potrebbe essere un’aliena. E invece è la Carrà. Ti capita spesso di chiederti se sia vera, la Raffaella. Cantata nelle canzoni come le principesse delle fiabe (vedi alla voce Tiziano Ferro), senza età come tutte le figure magiche, baciata da un successo che conosce solo rare cadute, amata dalle bambine e desiderata dagli uomini, idolatrata dalle donne che amano le donne e dagli uomini che amano gli uomini, Raffaella è fatta della stessa materia delle divinità. Vera, falsa, vera, falsa: come la metti, la Carrà è una delle più potenti icone italiane. Un mistero, paradossale eppur gaio e rassicurante.
Dovresti sorprenderti, ma alla fine te lo aspetti che ogni volta torni alla ribalta: brutto dire l’età di una signora, diciamo che ha praticamente la stessa età di Mick Jagger, ma anche molte altre cose in comune con il leader dei Rolling Stones, a cominciare da quello che parrebbe un patto col diavolo, non fosse la Carrà la beniamina delle anime buone. È così è anche questa volta: eccola di nuovo alla plancia di comando di The Voice (da ieri sera su Rai2), quattordici puntate del talent show tutto sommato troppo simile agli altri talent show (Amici e X Factor), non fosse per un piccolo ma cruciale dettaglio. Appunto la SuperRaffa, la Santa Raffa, la Raffa degli italiani, la più amata dagli italiani, la signora del TucaTuca. Una garanzia in sé, una certezza assoluta come la pasta asciutta e la pizza, come rotondità della sfera e lo scorrere dei fiumi.
UN’ICONA UNIVERSALE
Sì, forse c’è sempre stata, la Carrà: nata Raffaella Maria Roberta Pedoni a Bologna, grazie ad una geniale idea del regista Dante Guardamagna (nomen omen) viene chiamata Carrà per via del grande pittore futurista prima e metafisico poi, in modo da creare un corto-circuito d’assonanze altissime con il nome Raffaello, immenso genio cinquecentesco.
Lei c’era, secoli fa, dopo un incerto inizio nel cinema (al soldo, comunque, di gente come Florestano Vancini e Mario Monicelli, mica bricioline), in un’infinità di Canzonissime, Milleluci, poi una sequenza mozzafiato di Fantastico quando la media degli spettatori era di fantastiliardi rispetto alle medie desolanti di oggi. E poi Pronto Raffaella, in cui la nostra signora della televisione codificò un genere – quello pomeridiano chiacchiere e contatto “vero” col pubblico – in cui riuscì a tenere incollati al piccolo schermo milioni di spettatori anche con il vuoto pneumatico, che fossero fagioli o gingilli per i più piccini è lo stesso.
Fu la prova, ove ve ne fosse bisogno, del fatto che la Carrà è un fenomeno universale: come testimoniato da svariati trattati di semiologia, la falsa-bionda Raffa è una galassia di segni in cui si incrociano oceani di significati che attraversano diagonalmente le età, gli strati sociali e culturali, i mondi d’appartenenza. Come sarebbe stato possibile, altrimenti, che assurgesse ad una delle più potenti icone gay d’Europa, lei che aveva sempre sognato di essere una Marilyn con un Arthur Miller al proprio fianco, lei che fece impazzire l’italico maschio medio con la sola forza di un ombelico scoperto, in una Canzonissima targata Corrado a ragione entrata nella storia televisiva, sociale e del costume del Bel Paese?
CANZONI IMMORTALI
E poi, solo le icone hanno l’innata capacità di lanciare termini imperituri, per quanto sprofondati nel non-senso più sfacciato: Carramba che sorpresa – con cui la ex signora Pelloni lanciò in Italia un format che certo non è stato inventato da Maria De Filippi – è ormai un’espressione d’uso corrente.
Allo stesso modo, solo le icone hanno la capacità di rendere immortali canzoni di per sé brutte (checché voglia dire brutte) come Rumore o Far l’amore da Trieste in giù, o di fare intervenire un presidente del consiglio (Bettino Craxi), che non comprendendo il valore globale di Santa Raffa ebbe la pessima idea di arrabbiarsi per la cifra “immorale e scandalosa” che le fu accordata dalla Rai per un’esclusiva di due anni (6 miliardi di vecchie lire, che volete che sia).
SEMPRE ALL’AVANGUARDIA
Certo, si tratta di epoche mitiche e sideralmente lontane. L’anno scorso, per esempio, ci fu il tonfo di Forte, forte, forte, che era uno spettacolo ideato male, pensato male, costruito male. Ma non importa e, soprattutto, non può essere stata colpa sua. Carrà è oltre. Con Carrà vale la “sospensione del ridicolo”, come dicono i più accigliati sociologi. In teoria, quando capita, le sue coreografie sono finzioni, cantare canta in playback, i ballerini stile-transgender gridano vendetta, eppure il miracolo si è sempre ripetuto. Non è circo, non è mistificazione. La Carrà è qualcosa che trascende l’identità formale, al di là delle differenze di genere, dell’erosione di senso prodotta da una televisione generalità di giorno in giorno più vuota.
Un po’ come Andy Warhol o il mai troppo compianto David Bowie, Raffaella è sempre in trincea, è sempre pura avanguardia, anche quando balla, canta e parla il nulla. È come la scatoletta dei fagioli Heinz o i grandi quadri-fumetti di Roy Lichtenstein, è un capolavoro d’arte pop ambulante. Certo, quella manciata di milioni di spettatori che The Voice spera di portarsi appresso anche a questo giro di giostra non avrà in mente l’arte globale, ma non importa. L’aliena dal cuore d’oro detta Carrà come il più metafisico dei pittori ancora una volta ci porterà per mano in un eterno presente di pura invenzione, senza angosce e turbamenti. E il motivo è semplice: siamo noi a volerla così. Alleluia.