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 2016  febbraio 25 Giovedì calendario

La guerra del petrolio in Libia, tutto quello che c’è da sapere

Ecco perché l’Is incendia i pozzi
Dopo aver puntato nel 2015 a conquistare una serie di città e villaggi libici (la più importante, Sirte, è diventata la loro capitale in Libia) all’inizio del 2016 lo Stato islamico ha cambiato tattica. Il gruppo ha lanciato una serie di operazioni militari anche molto complesse, fra cui assalti alle installazioni della “mezzaluna petrolifera”, la zona della Cirenaica in cui convergono gli oleodotti che arrivano dai pozzi distanti anche centinaia di chilometri nel Sud della Libia. Il 5 gennaio l’Is dichiarava di aver preso il controllo di Bin Jawad, un crocevia importante ad Est di Sirte. Da quel momento gli uomini di Al Baghdadi hanno dato l’assalto ripetutamente a Ras Lanuf, un terminal petrolifero importante, e hanno incendiato 4 delle 13 megacisterne. Non è chiaro cosa volesse fare l’Is, ovvero se controllare direttamente i pozzi per poter vendere il petrolio oppure (molto più realistico) far saltare le fonti di finanziamento dei governi libici (Tripoli e Tobruk) che al medio termine avrebbero avuto bisogno di quelle risorse per continuare a combattere lo stesso Islamic State. Un’altra ipotesi su questi attacchi avvenuti anche ai pozzi petrolieri di As Sidr e del crocevia di Agedabia è che l’Is puntasse a fare “terra bruciata” attorno a Sirte, la capitale che i miliziani controllano ancora saldamente, in maniera da poter consolidarsi nella fetta di territorio controllato, ma anche di togliere risorse alle milizie libiche.

Vincenzo Nigro

Droni e check-point per difenderli
La difesa degli impianti petroliferi deve tener conto prima di tutto del luogo e del tipo di struttura, ma anche della minaccia prevista. Fanno parte del patrimonio libico stabilimenti terrestri e piattaforme marine. Queste ultime vanno difese con una sorveglianza navale dotata anche di mezzi veloci, in grado di intercettare e controllare ogni imbarcazione diretta verso le piattaforme. Alla presenza in mare va affiancata la ricognizione dall’alto, da affidare ai droni che garantiscono autonomia e accuratezza, e sono in grado di lanciare allarmi anticipati per poi permettere, quando serve, l’intervento dei caccia. Non viene considerata invece necessaria una difesa sottomarina, perché sembra da escludere che gli uomini di Daesh possano mettere le mani su sommergibili.
Le strutture terrestri saranno sorvegliate anch’esse dall’alto, con droni in prima battuta e caccia se necessario. A questi però va affiancata la presenza di contingenti terrestri, in grado di mettere in pratica check-point e di controllare ogni veicolo o presenza umana in avvicinamento. Per scopi di verifica nel dettaglio i velivoli senza pilota non sono sufficienti, perché comporterebbero una quota di errori (con conseguenti “danni collaterali”, cioè uccisione non voluta di civili) assolutamente intollerabile. I contingenti schierati sui diversi impianti devono comprendere elementi del genio, in grado di spegnere eventuali incendi sui pozzi, di limitare perdite di gas infiammabile, e così via, a seconda del tipo di impianto.
Giampaolo Cadalanu

Business ormai ridotto di un terzo
Solo sette paesi al mondo hanno sottoterra più petrolio della Libia. In Africa, neanche la Nigeria. Il paese può produrre 1,5 milioni di barili al giorno, anche se ora oscilla intorno ai 400 mila. Insomma, in termini di petrolio, la Libia vale almeno 5 volte la Siria. Allora l’Is ha trovato il modo di replicare in grande stile il business del greggio che lo sostenta in Mesopotamia? Difficile da credere. Il boom del petrolio jihadista coincideva con i prezzi record del greggio. Oggi, con il barile a 30 dollari, è difficile credere a guadagni significativi sul mercato nero. Inoltre, nel contrabbando del petrolio siriano, l’Is godeva della connivenza, se non l’attiva complicità della Turchia che, probabilmente, consentiva ai jihadisti di mischiare il loro greggio a quello legale, nei terminali degli oleodotti. Niente del genere in Libia, dove Egitto e Tunisia non collaborano con l’Is e le raffinerie italiane sulla sponda opposta del canale di Sicilia certo non accettano petrolio di contrabbando.
Eppure l’offensiva contro le installazioni petrolifere è l’ennesima prova della lucidità degli strateghi dell’Is. Il punto non è impadronirsi di nuove problematiche fonti di guadagno, ma azzerare le risorse su cui potrebbe contare un governo libico nemico degli islamisti. La Libia, oggi, vive di greggio. Senza, può solo implodere. Ecco perchè i jihadisti non hanno nessuno scrupolo a distruggere impianti, infrastrutture, stoccaggi di cui, comunque, non si potrebbero servire.
Maurizio Ricci

Rinnegata la regola di Bin Laden
In Libia l’Is mette nel mirino i pozzi petroliferi. Anche a rischio di provocare notevoli danni ambientali. Come sta avvenendo. Sembra passata un’era geologica dai timori “verdi” di Al Qaeda che, riflettendo sul come massimizzare i danni inflitti agli americani e ai sauditi mediante la jihad economica, solo un decennio fa invitava i suoi militanti a concentrarsi sugli oleodotti e a non attaccare i pozzi per evitare disastri ambientali e salvaguardare la salute della popolazione. ll fantasma dei bagliori dei pozzi kuwaitiani incendiati era anche negli occhi dei seguaci di Bin Laden. In Libia questo senso del limite potrebbe essere superato.
Il rischio è quello di assistere a scene destinate a far impallidire i fuochi immortalati da Werner Herzog in “Apocalisse del deserto”.
Contrariamente al teatro siro-iracheno, infatti, dove almeno sino al massiccio intervento della “doppia coalizione” l’organizzazione jihadista, complice anche il mercato nero regionale, ha controllato la produzione energetica, in riva al Mediterraneo il gruppo di Al Baghdadi non ha nè i mezzi nè la forza per gestire direttamente produzione e sicurezza delle infrastrutture. Da qui la strategia della distruzione applicata a Ras Lanuf o a As Sidr. La logica, tenendo conto che i maggiori beneficiari dei flussi energetici locali sono compagnie occidentali, è quella di evitare che i kafir, i “miscredenti”, in particolare italiani e altri europei, possano usare risorse naturali appartenenti al mondo islamico.
Renzo Guolo

L’Eni estrae ancora, teme ritorsioni
Eni è presente in Libia dal 1959, e per ragioni storiche e geopolitiche vi estrae idrocarburi più e meglio di tutte le altre major. Con la caduta di Gheddafi e la guerra civile la produzione dell’Eni non s’è mai interrotta, e attualmente si attesta sui 300mila barili equivalenti al giorno, il 20% del totale aziendale e un terzo degli idrocarburi in Libia. L’approccio dell’azienda con l’ex colonia è sempre stato favorevole al dialogo con i locali, generoso nelle forniture di energia elettrica nel paese, orientato alla filosofia della “doppia bandiera”, con personale in loco in gran parte libico; contrario, invece, a ogni intervento militare o azione che potesse provocare danni alle persone o agli impianti. Per questo l’accordo dell’Italia con gli Usa sull’uso delle basi militari è visto con preoccupazione dai dirigenti del Cane a sei zampe. Anche se le premesse sono che i droni statunitensi potranno decollare soltanto per scopi difensivi e previo accordo con le autorità, infatti, c’è il timore che qualsiasi bombardamento più o meno chirurgico – senza uomini a terra – possa creare vittime tra la popolazione, ritorsioni e aumento dell’ostilità. Ma il tipo di strategia che Washington chiama boots on the ground potrebbe inaugurarsi solo se richiesta da un governo libico in carica e unitario. Lo stesso governo che si sta con fatica provando a formare tra le due fazioni in lotta, e che l’ad dell’Eni Claudio Descalzi da tempo auspica. Perché l’Italia, già solo in forza dell’Eni e del suo indotto, è il paese che economicamente ha più da perdere da una Libia instabile.
Andrea Greco