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 2016  febbraio 25 Giovedì calendario

«Ho visto Yara salire sull’auto di Bossetti»

Gli occhi chiari, «chiarissimi, tanto che sembravano bianchi come quelli di una volpe che avevo visto». Alma Azzolin, 61 anni, di Trescore Balneario, non se li è dimenticati. Al processo per l’omicidio di Yara Gambirasio guarda l’imputato e dice: «È il signor Bossetti». Lui, Massimo Bossetti, il carpentiere di Mapello, è l’uomo che ha visto in auto con una ragazzina, nell’estate del 2010, nel parcheggio del cimitero davanti alla palestra di Brembate Sopra. Con la stessa sicurezza, più di quella messa a verbale nel novembre 2014, dice anche che la ragazzina era Yara: «Sì, per me sì».  
Gli occhi azzurri dell’imputato si riempiono di lacrime un paio di volte quando è sua moglie, Marita, a parlare. Nel banco dei testimoni, con i lunghi capelli che le incorniciano il viso, la donna viene messa alle strette dal pm Letizia Ruggeri e dai legali dei Gambirasio, Andrea Pezzotta ed Enrico Pelillo. Su un’intercettazione in carcere, in particolare, dove ricorda al marito di avergli chiesto cosa avesse fatto la sera del delitto, senza mai avere risposta.  
«Sull’auto c’era Yara»
È un martedì o un giovedì, tra fine agosto e inizio settembre 2010. Alma Azzolin è in auto nel parcheggio, quando vede un uomo. Passano pochi minuti e una ragazzina arriva di corsa: «Un metro e sessanta, 13-15 anni, maglietta salmone, capelli mossi, gambe scoperte e scarpe da ginnastica». Sale sull’auto. «Sorride, ho intravisto l’apparecchio, quando mi vede cambia espressione». Quando Yara scompare, la donna vede le foto in tivù e si scervella: «Da qualche parte l’ho vista». Lo stesso quando viene fermato Bossetti. Poi in televisione nota quel parcheggio, le si accende il ricordo e va dai carabinieri. Riconosce Yara solo in una foto. Ma ieri il grado di certezza è cresciuto.  
L’intercettazione 
«Posso parlare? Posso parlare?». Marita è in difficoltà nell’esame dell’avvocato Pezzotta che le chiede di un’intercettazione con il marito, a proposito del 26 novembre 2010, giorno del delitto. Lei incalza Massimo: «Non mi ricordo l’ora in cui sei venuto, non mi ricordo neanche cosa hai fatto. All’inizio eravamo arrabbiati, non te l’ho chiesto. Mi è uscito dopo, per la storia... Non mi hai mai detto che cosa hai fatto. Non me l’hai mai detto». La lettura dell’avvocato è in queste poche parole: «Si può capire che 4 anni dopo uno non si ricordi, ma da questa intercettazione capisco che gliel’ha chiesto due giorni dopo la scomparsa di Yara. Lei non ottiene risposta e non insiste?». «Non c’è scritto pochi giorni dopo», intervengono gli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini. Marita replica: «Comunque Massimo è arrivato per cena, non abbiamo mai cenato senza di lui».  
Marita crede al marito
Il pressing sul marito – dice – le serviva per decidere se credergli: «Uscivano notizie date per certe e volevo vedere la sua reazione. Se avesse mentito, sarebbe crollato. E io mi sarei allontanata, anche per proteggere i miei figli».  
Le ricerche online
«Sì, le facevo io». L’avvocato Pelillo elenca a Marita una serie di titoli a luci rosse, anche con la parola «ragazzine» e lei se ne assume la responsabilità. Anzi, ribatte: «Perché, è illecito?». Bossetti sbotta: «È intollerabile, basta». Ma la parola «tredicenne», no, quella Marita dice di non averla mai digitata. Bossetti nemmeno.  
Ester non parla
La donna che ha sfidato il Dna, dicendo che il suo Massi è il figlio di suo marito, sceglie di non parlare. Può farlo, in quanto parente. Ester Arzuffi arriva con l’avvocato e una guardia del corpo. Passo veloce, capello perfetto. In aula dice solo un «sì, sono la mamma». Massimo agita la mano destra per salutarla. Lei gli fa un sorriso e contraccambia.