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 2016  febbraio 25 Giovedì calendario

Ci vediamo a Shanghai, per provare a salvare l’economia mondiale

Immaginate per un attimo di essere i leader del G20 Finanze. Ministri economici e banchieri centrali delle venti maggiori economie del pianeta, da domani sarete chiusi per 48 ore a Shanghai in un palazzo sul delta dello Yangtze. È il fiume Azzurro, il più lungo dell’Asia, nasce fra i ghiacciai del Tibet e sulla sua riva da domani dovete capire che aria arriva dal resto del mondo dopo il peggiore inizio d’anno mai visto sui mercati finanziari. Non è esattamente un problema archiviato, perché le scosse sono tornate ieri con violenza da Piazza Affari a Francoforte, fino alla City.  
Ecco qualche anticipazione dell’aria che tira, annusata sul delta dello Yangtze. Negli ultimi due anni le esportazioni mondiali sono cadute di ottocento miliardi di dollari — meno 16% — ai minimi dall’inizio della crisi dell’euro (vedi grafico). Ottocento miliardi di dollari in meno, per la precisione, in un solo trimestre secondo l’Organizzazione mondiale del commercio. Persino le esportazioni di antiche potenze manifatturiere come la Germania, la Francia o l’Italia hanno perso un centinaio di miliardi di dollari di valore dai massimi raggiunti a metà del 2014. Un centinaio di miliardi se calcolati in dollari, ovviamente, mentre in euro tutto sembra migliore perché la moneta unica ha perso valore su quella americana. In altri termini, senza la svalutazione orchestrata da Mario Draghi e dalla Banca centrale europea nel 2015, oggi Germania, Francia e Italia sarebbero nei guai. Il made in Germany sarebbe caduto di almeno 150 miliardi di euro all’anno. La stampa anglosassone si starebbe esercitando sulla crisi del modello industriale tedesco, e l’Italia sarebbe in recessione. Questa settimana il termometro del clima e delle aspettative delle imprese tedesche (Ifo) è scivolato verso il basso per il terzo mese di seguito. Andrebbe anche peggio senza la svalutazione pilotata dalla Bce, ma è impossibile chiudere in cassaforte un vantaggio commerciale del genere senza che le altre grandi economie reagiscano prima o poi con le stesse armi: dal Giappone, agli Stati Uniti, le svalutazioni competitive diventano sempre un gioco a somma zero alla lunga. E forse il turno dell’Europa sulla giostra è già finito. 
Nel frattempo, proprio nel giorno in cui il G20 si riunisce a Shanghai, va al voto l’Irlanda. Dopo il salvataggio europeo del 2010, questa piccola economia nordatlantica è la vetrina migliore degli sforzi dell’Occidente nel superare la grande recessione. Oggi l’Irlanda vanta il primato della crescita nell’area euro (più 7% nel 2015), ha abbattuto il deficit dal 12% del Pil nel 2011 allo zero previsto quest’anno; eppure il Sinn Fein, guidato del fiancheggiatore dei terroristi dell’Ira Gerry Adams, è a un soffio dal primo posto nei sondaggi. Anche dopo un intero ciclo di ripresa, le forze antisistema restano fortissime in tutti i Paesi colpiti dalla Grande recessione. E non è detto che la ripresa nordatlantica abbia ancora molto fiato nei polmoni. Mentre Donald Trump guida le primarie dei repubblicani, l’indicatore delle imprese manifatturiere negli Stati Uniti è scivolato questo mese ai minimi del decennio. Now-Casting Economics di Lucrezia Reichlin, un centro di analisi, stima che l’economia americana viaggi ormai sotto l’1,5% l’anno, la frenata prosegue e ormai ha raggiunto l’area euro (vedi grafico). 
Più imbarazzante, data la deferenza che di solito tutti riservano alla Cina, è ciò che i leader del G20 vedranno dalle finestre del loro palazzo a Shanghai. È la più grande bolla di debito della storia. Negli ultimi dieci anni il volume di prestiti delle banche cinesi è più che decuplicato da tremila e 34 mila miliardi di dollari, spesso solo per costruire autostrade oggi deserte e acciaierie prive di mercati di sbocco. È una montagna di credito ammassata su ordine dei politici per creare posti di lavoro e comprare la stabilità sociale; il volume di questa enorme esplosione di debito è doppio rispetto ai massimi raggiunti dal sistema finanziario americano alla vigilia del crash di Wall Street nel 2008. Ora però la musica sembra sul punto di fermarsi anche nella Repubblica popolare. Il valore dell’export è in caduta, le banche sono zavorrate da crediti inesigibili pari a un terzo del reddito cinese, l’economia è diventata così lenta che l’anno scorso 5,7 milioni di persone hanno lasciato le metropoli della costa. Per la prima volta da trent’anni, i migranti tornano ai villaggi perché nelle città non c’è lavoro.  
Non succederà domani a Shanghai, ma la Cina riuscirà a uscire da questo vicolo cieco solo imitando ancora una volta una tattica tipicamente occidentale: una grande svalutazione competitiva. La guerra fra le monete rischia così di entrare nella fase nucleare, prima di sfociare in una tregua. L’economia globale rallenta visibilmente, al momento è «molto vulnerabile» ha ammonito in un documento preparato per il G20 il Fondo monetario internazionale, ma i leader a Shanghai non sono ancora pronti a cooperare per rianimarla. E per i vasi di coccio, Italia inclusa, inizia una nuova età del ferro.