Corriere della Sera, 25 febbraio 2016
Trump ha già vinto?
LAS VEGAS C’è un’America che sta uscendo dal sottosuolo della politica e urla: «Donald Trump for president». Lunedì 22 febbraio ottomila di questi cittadini amareggiati, delusi, arrabbiati hanno stipato il casinò South Point Arena di Las Vegas. Erano arrivati dallo Utah, dal Wisconsin, dalla California, dall’Arizona. Tutti fan di Trump, prima ancora che suoi elettori. Il giorno dopo, martedì 23 febbraio, i risultati dei caucus, le assemblee dei votanti in Nevada, sono semplicemente devastanti. Nel 2012 si erano presentati ai caucus 33 mila persone su un bacino di 400 mila repubblicani. Questa volta, si diceva alla vigilia, saranno al massimo 40 mila. Sono stati, invece, 74.870. E il 45,9% del totale, cioè 34.531 elettori, ha scelto Trump. Il leader ha praticamente doppiato i concorrenti diretti: Marco Rubio ha ottenuto il 23,9%; Ted Cruz il 21,4%. Gli altri due, ridotti a ruolo di comparsa, sono dati per dispersi: Ben Carson, 4,8%, John Kasich, 3,6%.
A questo punto il fenomeno nuovo che andrebbe studiato, compreso più a fondo, non è più tanto Trump, quanto i suoi elettori. Chi sono? Da quale botola sono usciti? Il Nevada è diventato il quarto Stato nella sequenza delle primarie perché è ritenuto un campione rappresentativo della composizione socio-demografica degli Usa. Ci si può stupire, si può anche sorridere ascoltando le voci che arrivano da questa America profonda, da Parhump, per esempio, a 100 chilometri da Las Vegas. L’elettricista Richard, 62 anni, che gira con la pistola nella fondina, anche se, per fortuna, non ha mai sparato a nessuno. Il pensionato Gail che prende di mira la Cina. E così via. Macchiette? Forse ancora per qualche commentatore europeo (sempre di meno). Un’onda di «gente nuova», una forza inattesa che adesso bisogna capire quanto può essere potente. Trump è il loro campione perfetto, come si è visto nel casinò di Las Vegas. Accusa le televisioni di manipolare le immagini dei suoi comizi? Applausi. Minaccia di prendere a pugni un contestatore? Ovazioni.
Questo è lo scenario con cui si arriva all’appuntamento forse decisivo del Super Tuesday, il primo marzo: 11 Stati al voto in campo repubblicano: 595 delegati in gioco, sul totale dei 2.472 che si daranno appuntamento alla Convention di Cleveland, tra il 18 e il 21 luglio, per assegnare la nomination.
Finora il messaggio di Trump ha steccato solo nella tappa iniziale, nell’Iowa. Poi ha sfondato tra gli evangelici del New Hampshire, sulla costa Est del Paese; nel South Carolina e nel Far West del Nevada. È dunque un’offerta rozza e politicamente scorretta fin che si vuole, ma trasversale alle geografie, ai ceti sociali, agli orientamenti religiosi del Paese.
I contendenti si stanno preparando a quello che potrebbe essere l’ultimo tentativo. Attenzione puntata in particolare sul Texas, che da solo mette in palio 155 delegati. Ma i canali sono quelli tradizionali, manovre di palazzo si potrebbe dire. Ted Cruz ha chiesto e ottenuto l’ endorsement, l’appoggio del governatore del Texas, Greg Abbott, amico personale e punto di riferimento politico. Marco Rubio, invece, investirà qui 1,5 milioni di dollari solo in pubblicità. Obiettivo: restare almeno nella scia di quello che è stato già chiamato «il Trump Express».