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 2016  febbraio 24 Mercoledì calendario

Al funerale di Umberto Eco, dove alto e basso si sono seduti vicini

Paolo Di Stefano per il Corriere della Sera
Un Eco è un Eco è un Eco è un Eco… Senza apostrofo. Aveva ragione Piergiorgio Bellocchio nel giocare anni fa, maliziosamente (lui che non amava per niente Il nome della rosa), sul cognome del semiologo e dello scrittore più famoso. Nomen omen. Aveva ragione, a giudicare dall’eco che la sua morte ha avuto nel mondo ma soprattutto a Milano, la sua città di adozione, dove viveva dagli anni Cinquanta. Sono bastati pochi passi, dal portone a specchio dello splendido palazzo storico in cui abitava, per raggiungere il Cortile quattrocentesco della Rocchetta, all’interno del Castello Sforzesco, dove alle tre avrebbe preso avvio il funerale laico (laico sottolineato) voluto dalla famiglia, la moglie Renate, i figli Carlotta e Stefano, probabilmente in obbedienza ai desideri espressi dal caro estinto prima di partire verso quell’aldilà in cui non credeva più da molti anni.
Sotto gli archi, una bara nuda, di legno chiaro, nuda come i nomina nuda che, in epigrafe, aprono il suo primo romanzo. Un cuscino di rose bianche accompagnate da piccole margherite e da poche macchie arancione. Sobrietà. Lì accanto, su uno sgabello di velluto blu, la toga universitaria che fu del professor Eco con sopra l’ermellino e il tocco nero, a ricordare che prima di tutto veniva l’insegnante. Poche parole, si era detto. In realtà, il succedersi dei saluti e delle testimonianze e dei ricordi, ripresi in diretta Rai (non si ha memoria di uno scrittore italiano salutato in diretta televisiva), si è dispiegato per più di un’ora: elegante cerimoniere il suo amico Mario Andreose, direttore letterario Bompiani, editor e sparring partner, ora passato sulla Nave di Teseo con il capitano Elisabetta Sgarbi («Umberto era l’armatore»).
E una fiumana di gente – ammiratori entusiasti di Guglielmo da Baskerville, semiologi in pectore ma probabilmente anche molti nostalgici di Mike Bongiorno – che ha inondato il cortile fino alla Piazza d’Armi dove la coda è iniziata prestissimo. Chi con un fiore, chi con una pagina di giornale, chi con un volume sotto il braccio (non solo Il nome della rosa, ma anche il Pendolo e persino La struttura assente, impegnativo reperto di chissà quanto lontani esami universitari). Tutti con il telefonino tra le mani a cercare di carpire a futura memoria uno sguardo di Benigni: «Se s’abbassa, signora, riesco a fare una foto…». Quella mescolanza tra alto e basso (a volte molto basso: il solito cellulare a disturbare il clavicembalo in apertura di cerimonia) che Eco ha praticato e teorizzato come studioso per tutta la vita.
Gli sarebbe piaciuta questa celebrazione (laica) di amici, sindaci, rettori, colleghi? Certo gli sarebbe piaciuto suo nipote Emanuele, figlio di Stefano, quando ha letto la sua lettera: «Caro nonno, volevo fare una lista, visto che le liste ti piacevano tanto, di tutte le cose che abbiamo fatto insieme in questi quindici anni, ma sarebbe stata troppo lunga...». Gli sarebbe piaciuto, sicuramente, anche il vecchio amico Gianni Coscia, suo compagno di liceo («e di bisbocce musicali», ha precisato Andreose), fisarmonicista jazz suo concittadino di Alessandria, che parla con la stessa erre dell’amico Umberto: «Quando mi ha sentito suonare, mi ha detto: sei bravo, perché non cambi strumento?». Solo Coscia è riuscito a smuovere il viso assorto di Roberto Benigni che finalmente ha sorriso, in piedi lì a fianco di Nicoletta Braschi, aggrappata al suo braccio. A un passo dalla giacca a vento grigia di Carlo De Benedetti. «Il problema è avere il demone giusto», scrisse Eco a proposito di un disco dell’amico Gianni.
E gli omaggi, i ricordi, gli aneddoti sul professore, sul bibliofilo, sullo studioso, sull’enigmista e battutista, sull’editore che, oltre a proporre i filosofi del linguaggio, ha voluto pubblicare Woody Allen e Fantozzi. E poi: sull’amante della musica barocca, sulla sua erudizione sposata con la leggerezza, sul grande nuotatore che nuotava alla marinara e che diceva che tra una bracciata e l’altra riscriveva mentalmente il capitolo di un libro.
Un Eco è un Eco è un Eco. Anche chi non ricordava neanche un titolo della sua sterminata produzione era lì, inchiodato ad ascoltare, rapito dal fascino dell’intellettuale dei due mondi, dei tre o quattro mondi, appena visto in televisione, intervistato o blobbato. Magari aspettando l’inserto umoristico di Benigni, che non è arrivato, perché quando, verso la fine, Andreose gli si è avvicinato per chiedergli se voleva dire due parole ha fatto no con la testa, Nicoletta occhiali neri sempre aggrappata al suo braccio sinistro. «Peccato che Roberto non ha parlato, però almeno l’ho fotografato, eccolo qua...», la signora con cappellino rosso mostra una serie di scatti. Alto basso.
Ci sono tutti o quasi. Ci sono da fotografare anche Moni Ovadia e Lella Costa. Mentre parla Elisabetta Sgarbi, un’intervistatrice bionda si intrufola sotto il porticato, microfono in mano, alla ricerca di celebrità: «Vorrei fare due domande a qualcuno ma non so a chi». Intermezzo degno di una pièce di Jarry (che piaceva tanto a Eco). Insiste: «Angelo Guglielmi non c’è?». No, è dalla parte opposta del porticato, e in effetti sarebbe interessante sentire il vecchio sodale del Gruppo 63. Però c’è Gad Lerner, c’è Ginevra Bompiani, la figlia di Valentino che Eco chiamava zio Val, e c’è l’architetto Vittorio Gregotti che è appena scivolato sul selciato del cortile ed è qui anche con i cerotti sulla fronte e sul naso, c’è il grande Tullio Pericoli, amico di Umberto e dell’amico comune di «goliardiche bisbocce verbali» Emilio Tadini.
C’è mezzo mondo. Ci sarebbe solo l’imbarazzo della scelta, ma si spinge troppo, la ressa attorno al feretro preme, preme. L’applauso si alza quando i ricordi sono finiti (ma avrebbero potuto continuare) e la bara viene sollevata sui pennacchi rossi dei carabinieri e sull’oceano di lettori presenti e futuri. Aveva ragione Eco: tutto è segno. E quanti segni avrebbe colto il semiologo al suo funerale.

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Alberto Mattioli per la Stampa

Addio Eco, ci hai riempiti di orgoglio

Ieri al Castello Sforzesco di Milano il funerale laico dello scrittore, aperto e chiuso in musica Sobrietà, leggerezza e commozione, quando ha preso la parola il nipote quindicenne

Alberto Mattioli

Doveva essere un addio laico, sobrio, musicale, non troppo triste né troppo lungo. Missione compiuta. Umberto Eco si è congedato dal mondo, o forse è il mondo che si è congedato da Eco, con le modalità previste, alle 15 di ieri nel cortile della Rocchetta del Castello Sforzesco di Milano. Breve anche l’ultimo viaggio: abitava dall’altra parte della strada.
Funerale civile, senza alcun simbolo religioso. Corazzieri e corona dalla Presidenza della Repubblica, corone anche da Renzi, da Boldrini e da Hollande, gonfaloni a lutto e sindaci delle sue città, Alessandria, Torino, Milano, dei paesini delle vacanze e dell’Alma Mater, la sua università, quella di Bologna. La bara è semplicissima, di legno chiaro sommerso dai fiori; accanto, toga e tocco accademico. Sotto il portico, la vedova, i figli Stefano e Carlotta e gli amici illustri e non, Furio Colombo, Gianni Vattimo, Moni Ovadia, Lella Costa, Angelo Guglielmi, Carlo De Benedetti, i rettori e gli editori, gli autori e i professori. Nel cortile, la gente che è riuscita a entrare, a occhio mille o millecinquecento persone, e altrettante rimaste fuori. C’è un po’ di tutto: l’editoria italiana quasi al completo, studenti attuali e stagionati, ex fondatori del Dams, semiologi della prima ora adesso con i capelli bianchi, molta sinistra salottiera milanese, i vertici Rai, sia Maggioni sia Campo Dall’Orto, e i soliti presenzialisti da funerale mediatico che però non hanno capito che le ostensioni nazionalpopolari tipo Pavarotti o padre Pio sono un’altra cosa. Sulla testa di qualcuno spunta un cartello: «Grazie prof».
Clavicembalo e viola
Curioso: Bologna ha mandato due vice, la vicesindaca e la vicepresidentessa della Regione, e tre rettori, quello in carica e due ex. Roberto Benigni sbuca fotografatissimo dopo aver fatto la coda come tutti, non parla alla cerimonia e poco anche fuori: «Non aveva niente di speciale se non che quando arrivava lui era tutto speciale, c’era un luccichio, arrivava un vento che faceva bene al mondo. Peccato che non ci sia più. Nel cielo ce n’è tante di belle persone, qua ne rimangono sempre poche».
Si inizia e si finisce in musica, clavicembalo e viola da gamba: prima Diego Ortiz, poi Marin Marais, variazioni sul tema della Follia di Spagna che Eco amava e suonava sul suo flautino dolce. Il maestro di cerimonie è Mario Andreose, il suo editor da sempre, perfettamente echiano per ironia e understatement: «Ha scritto qualche libro». Il sindaco Giuliano Pisapia racconta della scelta di Eco di vivere a Milano e del perché questa scelta inorgoglisca la città. I due ministri presenti sono Dario Franceschini dei Beni culturali e Stefania Giannini dell’Istruzione, parlano entrambi restando sull’istituzionale, «aveva una biblioteca dentro di sé» (lui), «abbiamo perso un Maestro, non la sua lezione» (lei).
«Anche se non credi»
Furio Colombo ricorda le 41 lauree honoris causa, Gianni Cervetti il bibliofilo, Elisabetta Sgarbi il nocchiero della Nave di Teseo, «fondata da lui ma non su di lui, per i suoi figli e per i suoi nipoti. Una nuova casa editrice significa regalare un futuro». Nuova, ma creata per fedeltà all’amata Bompiani: «Aveva la speranza di ricongiungere il suo catalogo», chissà.
Sul podio mancano ancora la leggerezza e la commozione. Alla prima provvedono in tre. L’amico alessandrino di una vita, Gianni Coscia, legge le note di copertina che il de cuius gli scrisse per un suo disco di fisarmonica jazz, e sono quegli ossimori apparentemente impossibili nei quali la coltissima ironia del Professore faceva faville. L’ex rettore di Bologna, Ivano Dionigi, ricorda che Eco sosteneva che i classici allungano la vita, quindi «adesso che sei diventato un classico anche tu, allungherai le nostre». Ovadia racconta una storiella ebraica e poi dà all’amico una benedizione atea, «che Dio ti benedica e ti protegga anche se non ci credi», perché Egli «sopporta i credenti ma predilige gli atei». Applausi e risate.
La commozione arriva quando è il turno di Emanuele, il nipote di quindici anni che poco prima aveva attraversato la folla con una rosa in mano e gli occhi lucidi. «Caro nonno - comincia -, mi hanno spesso chiesto cosa si prova ad avere un nonno così, e non sapevo mai cosa rispondere». Ricorda i viaggi, le musiche e i libri condivisi e conclude: «Finalmente ho capito: averti come nonno mi ha riempito d’orgoglio».
Andreose può essere soddisfatto: un’ora e dieci in tutto. La bara parte fra gli applausi. In serata, all’Ansaldo c’è la vernice della mostra su Luca Ronconi. Forse ha ragione Benigni: il meglio dell’Italia comincia a non stare più su questa terra.