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 2016  febbraio 24 Mercoledì calendario

Se la cultura è un biglietto da visita per l’ingresso in società

C’è stato un tempo in cui la cultura era uno strumento di emancipazione e di trasformazione sociale. Giuseppe Di Vittorio a quindici anni era ancora analfabeta. Quando capì che guidare una lega bracciantile in quelle condizioni significava brandire un’arma senza punta, si procurò un vocabolario.
Oggi, possedere una cultura è un biglietto da visita per l’ingresso in società. Ammessi a quella rutilante e a volte sinistra festa in maschera che è per ora il XXI secolo, ci accorgeremo presto che il nostro abito culturale – ciò che ci aveva fatto varcare i cancelli del palazzo con inchino dei buttafuori – è il travestimento perfetto per risultare ininfluenti nel caso ci venga voglia di cambiare le regole del gioco. Anche perché, più che possedere una cultura ci stiamo limitando a macinare dei consumi culturali. Benvenuti nella modernità liquida, dove anche Marx è un articolo da bazar o da festival letterario.
È questo il punto di partenza di Per tutti i gusti di Zygmunt Bauman (Laterza), un’opera intelligente, utile a chi (usando a propria insaputa la cultura come foglia di fico) vuol farsi mettere un po’ in crisi.
Il concetto di cultura come strumento di liberazione, spiega Bauman, è un lascito della Rivoluzione francese. Crollato l’Ancien Régime, la cultura doveva aiutare a ricostruire la società, riscattando l’uomo dagli abissi dell’ignoranza. Con la nascita degli stati nazionali e la loro evoluzione democratica, la cultura diventa nel peggiore dei casi il megafono e nel migliore il fiore all’occhiello dello Stato, il che accade grazie al conflitto tra intellettuali, artisti e società civile da una parte, e istituzioni dall’altra.
Con la crisi degli stati nazionali questo modello va in crisi. Durata, universalità, misteriosa refrattarietà a un fine pratico. Ecco tre prerogative della bellezza artistica di cui il mondo 2.0 vorrebbe sbarazzarsi. I prodotti culturali hanno oggi un fine (vendere), un target (per tutti i gusti, appunto), e la deperibilità necessaria al rapido rimpiazzo. La ricaduta di questo su di noi – che forse ancora aspiriamo alla cultura come conquista felice – è di viverla invece come ansiogena fuga in avanti. Il problema, scrive Bauman, è che «il progresso si è spostato da un discorso di miglioramento di vita condiviso a un discorso di sopravvivenza personale». Interpretiamo i consumi culturali in termini individualistici, «nel quadro di uno sforzo disperato per non uscire di pista».
Qui c’è la parte più interessante e destabilizzante del discorso di Bauman. Se la cultura è solo la cresta dell’onda nell’oceano globalizzato, cosa si muove sotto i consumi usa e getta di quella che, con buona pace di Steve Jobs, potremmo definire iCulture? Ovviamente l’economia, che nel XXI secolo ha riallargato la forbice tra ricchi e poveri, tra inclusi e esclusi. È di questo modello che saremmo gli utili idioti quando calziamo Proust o Lady Gaga per non venire esclusi da un altro ballo in società. Dismesso il ruolo di promotori di grandi trasformazioni, molti intellettuali si rifugiano nella difesa della multiculturalità. Cioè proprio dove, secondo Bauman, si cela un grande equivoco del pensiero progressista degli ultimi anni. Da una parte difendiamo le differenze culturali e i diritti delle minoranze, dall’altra leggiamo anche la disuguaglianza come una differenza culturale. «Con questo espediente linguistico la bruttezza morale della povertà si trasforma magicamente nell’appeal estetico della diversità culturale». La cultura della differenza come scusa per l’indifferenza davanti alle disparità.
Non c’è libertà senza giustizia sociale, si diceva un tempo, e il libro di Bauman esce proprio mentre il famigerato 1% detiene per la prima volta più ricchezza del restante 99%. La prossima volta che leggiamo le parole Think different, ricordiamoci che si tratta solo di pubblicità.