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 2016  febbraio 24 Mercoledì calendario

La Turchia perde l’occasione per essere un paese modello del Medio Oriente, ma ritrova la via per arrivare in Europa

Ankara Dicono che la bolletta mensile della luce del palazzo presidenziale ammonti a 400 mila euro. Sorvolando dall’alto la capitale turca, un immenso fascio dorato vi abbaglia dalla collina dove sorge questa stravaganza neo ottomana, debordante marmi, legni pregiati, ori e cristalli. Ha 1.115 stanze, è costato ufficialmente 500 milioni di euro (la cifra vera, molto più alta, è un segreto ben custodito) ed è probabilmente una delle più megalomani rappresentazioni del potere dell’era contemporanea.
Ma di tutte le chicche rivelatrici dell’autopercezione di Recep Tayyip Erdogan, il Sultano che l’ha voluto a sua maggior gloria, una la dice lunga sul senso di onnipotenza del presidente turco: sorgendo su un’area protetta, la Foresta Ataturk, il palazzo è abusivo, come ha stabilito una sentenza del Consiglio di Stato.
Lunedì notte, dopo aver ricevuto il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, il Sultano è uscito dalla sua reggia diretto all’aeroporto, per volare a Istanbul. Il corteo era formato da 40 auto, aperto e chiuso da decine di agenti in motocicletta. Uno scudo protettivo impressionante (neppure Vladimir Putin a Mosca ne ostenta uno simile) per un leader ancora molto popolare, ma che sente la sicurezza sua personale e quella del suo Paese messe in discussione da una tempesta perfetta. Dove il terrorismo torna a colpire nelle città, i confini sono teatro di guerra e usbergo di nemici, gli alleati non sembrano più disposti a firmare assegni in bianco e l’economia arranca, anche in conseguenza dei gravi errori politici e strategici.
In soli 4 anni il Paese modello del Medio Oriente, riferimento obbligato per la stabilità regionale, è mutato in fattore di imprevedibilità e di rischio. E dall’ambizione di «non avere nemici ai nostri confini», secondo la dottrina ispirata dall’ex ministro degli Esteri e oggi premier Ahmet Davutoglu, Ankara si riposiziona ora in un «prezioso isolamento», copyright dello stesso Davutoglu, che in realtà nasconde un disastro in fieri: «La dimensione dei problemi supera la capacità di Erdogan di gestirli insieme e con successo», dice Gokhan Bacik, docente di relazioni internazionali alla Ipek University. È come se una sorta di hubris in politica estera, figlia dell’eccesso di sicurezza che è parte integrante del racconto di Erdogan, abbia confermato l’assunto del politologo americano Fareed Zakaria, secondo il quale«nel mondo post americano le potenze regionali diventano più forti, ma non per questo si comportano in modo più strategico o più saggio».
La Turchia oggi è in grave rotta di collisione con la Russia. L’intervento di Putin in Siria ha impedito la caduta di Assad, sulla quale Ankara aveva investito pesantemente, al punto da chiudere entrambi gli occhi sulle migliaia di combattenti islamici che dal territorio turco raggiungevano le file dell’Isis. Le sanzioni decise da Mosca, dopo l’abbattimento del caccia russo in novembre, puniscono severamente l’economia turca nei settori vitali: turismo, energia, export agricolo.
La ferita curda torna a sanguinare. Il fallimento del processo di pace con la minoranza interna ha di fatto riaperto un fronte di guerra domestico nel Sudest. Mentre è andato a vuoto il tentativo di emarginare i curdi siriani del Ypg, alleati di Usa e Occidente nella lotta all’Isis, che invece Erdogan vorrebbe marchiati come terroristi. Ed è durato poche ore il tentativo di addossare loro la colpa dell’attentato della settimana scorsa ad Ankara, dove hanno perso la vita 28 persone, chiuso nell’imbarazzo generale davanti alla scoperta che l’autore è un profugo siriano, da poco entrato in Turchia.
Il Sultano è solo. Neppure gli Stati Uniti, alleato in pieno disimpegno, appaiono più disposti ad assecondarne scelte e intemperanze. L’eventualità di un intervento diretto in Siria, evocata per giorni, viene ora negata: «Mai da soli», ha detto il ministro degli Esteri Cavusoglu. All’aggiustamento non sono estranee le critiche americane e anche la riluttanza delle forze armate turche a mettere stivali sul terreno.
Eppure, anche se non più circondata da amici, la Turchia non è priva di opzioni. Tutto si può rimproverare al Sultano, compresa la deriva autoritaria che restringe gli spazi di libertà, ma non di non aiutare l’Europa, squassata dalle ondate migratorie. Certo i 2,5 milioni di rifugiati che ospita (in condizioni umane e decenti) sul suo territorio sono una carta, che il leader turco gioca abilmente per strappare concessioni ad Angela Merkel o a Jean-Claude Juncker. Ma il paradosso rimane. Come ha spiegato Gentiloni, l’adesione alla Ue può essere la via maestra per ridare stabilità alla Turchia e superare i ritardi della sua democrazia. Così, proprio nel momento in cui smarrisce la vocazione di pivot del Medio Oriente, Ankara, per forza e per amore, può ritrovare quella europea. Faremmo un errore tragico a chiuderle nuovamente la porta in faccia.