Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  febbraio 24 Mercoledì calendario

Sull’aggressione ad Angelo Panebianco

L’aggressione subita all’università di Bologna da Angelo Panebianco è un fatto molto grave, da denunciare con forza. Di aggressione si tratta, perché impedire di insegnare a un docente dell’università più antica del mondo occidentale rappresenta un’autentica violenza, oltre che un malcostume purtroppo non inedito ma che fa parte delle peggiori tradizioni del nostro Paese. Le cose non si ripetono mai allo stesso modoe quindi non possono essere paragonate.
Ma quando nella storia italiana si è impedito a un professore di fare il proprio mestiere, perché ebreo negli anni Trenta o perché non conformista negli anni Settanta, è sempre stato segno che le cose si stavano mettendo male. E anche senza evocare i precedenti di violenza fisica, che purtroppo ci sono stati, basta pensare alle intimi-dazioni – come i tentativi di interrompere le presen-tazioni dei libri di Giampao-lo Pansa o le molotov contro la casa di Renzo De Felice – per comprendere che si tratta di un pericolo che ci riguarda tutti, come comu-nità nazionale e come ap-passionati alla vita pubblica, e quindi richiede la reazione di tutti, non solo degli allievi di Panebianco che coraggiosamente si sono ribellati ai facinorosi. La libertà di insegnamento è sacra e va tutelata sempre e comunque. A maggior ragione perché il tema del corso era la pace e la guerra. Si può dissentire dalle tesi di Panebianco, ma è impos-sibile dargli torto su un punto: l’Europa in generale, e l’Italia in particolare, faticano a pensare la guerra. È ormai evidente che le illusioni del 1989, quando un pensatore oltretutto vicino alla destra americana come Francis Fukuyama parlò di «fine della storia», sono state spazzate via. Eppure, proprio mentre il Papa mette in guardia sulla «terza guerra mondiale», il nostro Paese inscena una fiction irenica. Preferisce fingere di continuare a credere alle magnifiche sorti e progressive del pacifismo; come se Monaco 1938 non avesse insegnato nulla. Di Churchill e di De Gaulle nell’Europa di oggi non c’è traccia, mentre vediamo bene dove sono i Chamberlain e i Daladier: dappertutto. Più che una guerra in senso tradizionale, quella che stiamo affrontan-do è un’epoca. Non sappia-mo quando finirà, né come. Ma di una cosa siamo certi: coloro che intendono entra-re nella nuova epoca con le orecchie tappate per non ascoltare gli avvertimenti sgraditi, non avranno mai gli strumenti per compren-dere il tempo che ci è dato in sorte; e non saranno bravi studenti, né un domani bravi professori, né soprat-tutto cittadini utili agli altri.

Aldo Cazzullo

*****

«No, le mani addosso no, per favore». Il rettore Ivano Dionigi piegò la testa per evitare la gogna del cartello che il giovane studente stava cercando di appendergli al collo mentre i suoi compagni lanciavano finte banconote in aria dopo essere entrati alla riunione del consiglio di amministrazione dell’Ateneo. Era il 27 novembre del 2013, e il Collettivo universitario autonomo protestava così contro la mancata opposizione dell’Alma Mater alla riforma Gelmini, scordando il fatto che a suo tempo la loro università era stata l’unica a produrre un documento di dissenso rispetto alle decisioni prese dal ministro dell’Istruzione dell’ultimo governo Berlusconi.
Il momento, il modo e forse anche le premesse della contestazione erano sbagliate, in ritardo di almeno un anno. Ma l’adesione ai tempi odierni non sembra essere una priorità, per un gruppo che nei suoi cartelli rivendica spesso con orgoglio il fatto di avere l’orologio puntato su un’epoca passata, indietro di quasi quarant’anni, più o meno nel Settantasette. Il Cua è la diretta filiazione del centro sociale di ispirazione autonoma Crash, nasce come sua emanazione universitaria una decina di anni fa prendendo possesso di due locali dell’Ateneo, un soppalco della biblioteca di discipline umanistiche al numero 36 e un’aula al pianterreno del civico 38. Il primo è stato sgomberato pochi mesi fa, la seconda c’è ancora. I collettivi sopravvivono grazie alla benevolenza dell’istituzione che li ospita e che ogni tanto contestano, come avviene in questi giorni con il professor Panebianco.
L’ultimo domicilio conosciuto di Hobo, il laboratorio dei saperi comuni che della contestazione all’editorialista del Corriere della Sera ha fatto una bandiera sventolata circa una volta all’anno, è in alcune serre abbandonate di via San Filippo Re, ma il punto d’appoggio universitario è sempre stato la famosa Aula C, occupata nel 1989 da un gruppo di ragazzi impegnati nella contestazione della riforma dell’allora ministro dell’Istruzione Antonio Ruberti e nel tentativo di lasciarsi alle spalle le macerie e il peso del ‘77 bolognese. Era la Pantera, divenne ben presto altro, il punto di ritrovo degli studenti più radicali, uniti dall’ispirazione anarchica.
«Noi siamo l’unico vero luogo tollerante di questa città» dice sotto i portici di via Zamboni uno studente di Storia che sostiene di fare parte del Cua e di chiamarsi Andrea. «Ma non possiamo accettare le idee reazionaria espresse da docenti come Panebianco. La persona non c’entra nulla. Sono le sue parole, che sostengono un sistema razzista che nega gli spazi di sopravvivenza a chi come noi cerca di fare argine al degrado morale dell’università e della società». L’obiezione sul significato della parola tolleranza viene lasciata cadere in fretta. «Gli impediamo di parlare? Quando scrive sul giornale non c’è nessuno che possa contestarlo, gode di una posizione di assoluto vantaggio. Così facciamo pari e patta. E continueremo a farlo».
Alla fine sono cinquanta studenti su ottantamila. Il passato prossimo di Bologna, dal remoto ’68 alla rivolta del ’77 passando per le occupazioni degli ultimi anni fa sempre scattare il riflesso pavloviano del paragone con quel che fu. Ma i numeri sono questi. Non è una galassia, è improprio persino parlare di area. Sono pochi e non vanno neppure d’accordo tra loro. Anzi, si menano spesso, e pure forte. Il Cua organizzava pullman per la Val di Susa quando in quella periferia boschiva d’Italia il ghiaccio era davvero sottile e nel nome della Tav c’erano assalti quotidiani agli agenti di guardia al cantiere. Hobo ha una dimensione più locale, meno ramificata. L’interesse comune e confliggente sta nella gestione degli spazi universitari, usati non per l’elaborazione teorica ma per organizzare feste che servono a pagarsi le attività e le spese, comprese quelle legali dovute alle decine di denunce raccolte durante i periodici scontri con le forze dell’ordine.
Le aule occupate ospitano spesso feste notturne con annessi disc jockey e impianti di amplificazione. Lo scorso gennaio il Consiglio accademico tentò una sortita annunciando provvedimenti disciplinari contro i responsabili di quello che veniva giudicato un uso improprio degli spazi universitari. L’unico risultato concreto fu la chiusura di qualche aula, e l’inizio di una faida per contendersi i restanti luoghi di autofinanziamento. I gruppi anarchici e quelli che si rifanno ai precetti della vecchia autonomia si ritrovano uniti quando c’è da fare casino. Gli scontri dell’estate 2013 in piazza Verdi, non a caso generati dalla mancata concessione del permesso di installazione dell’impianto stereo durante un pomeriggio autorganizzato, sono rivendicati con orgoglio da entrambi i contendenti, una specie di fiore all’occhiello comune. La contestazione di ieri, fatta da Hobo, che aveva già dato nel 2014, non è altro che la risposta a quella di lunedì, attuata dai rivali del Cua. Panebianco è finito dentro una assurda gara a chi è più radicale che ha come premio finale una maggiore visibilità all’interno dell’antagonismo cittadino. E infatti ieri nell’atrio dell’università era facile trovare volantini di entrambi i collettivi, con lo stesso disegno, una rudimentale caricatura del professore bolognese, e tanto di bavaglio sulla bocca. Deve trattarsi del famoso confronto delle opinioni.
Marco Imarisio