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 2016  febbraio 24 Mercoledì calendario

Così gli Usa spiavano Berlusconi

È un filo tirato sull’abisso quello su cui, nelle ultime ventiquattro ore, Casa Bianca e Palazzo Chigi, Dipartimento di Stato e Farnesina, Cia, Nsa e Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza (Dis) hanno cominciato una danza da acrobati. Perché come il morto che si afferra ai vivi l’inesauribile archivio di Snowden e le nuove rivelazioni sullo spionaggio dell’ex Premier Silvio Berlusconi non solo e non tanto riportano le lancette del tempo all’indietro di tre anni, ma pongono un’alternativa del diavolo. Dove delle due l’una. O nell’estate del 2013, gli Stati Uniti mentirono all’Italia sostenendo che le attività di intelligence non convenzionale avevano risparmiato il nostro Governo. O, al contrario, dello spionaggio in danno dell’Italia e di Silvio Berlusconi Palazzo Chigi fu messo al corrente già allora, quando la vicenda Wiki-Leaks esplose, e, in questi tre anni, ha taciuto la verità al Paese.
Accade così che, con decisione, Palazzo Chigi decida di buon mattino di ridurre l’alternativa a una sola ipotesi – quella della bugia di Washington – convocando alla Farnesina l’ambasciatore americano John Phillips e, contestualmente, sollecitando il nostro Dis ad esigere spiegazioni su quanto accaduto nel 2011 dai capicentro di Cia e Nsa a Roma. Ma accade anche che, in questo stesso perimetro, Roma e Washington comincino a lavorare a una possibile soluzione che liberi dall’imbarazzo Palazzo Chigi e Casa Bianca con una spiegazione plausibile. Soprattutto, non in contraddizione con quanto, proprio nel 2013, l’allora premier Enrico Letta disse alla Camera sulla scorta delle assicurazioni ricevute dal direttore del Dis Giampiero Massolo dopo colloqui a Washington con Cia ed Nsa e dall’allora e attuale sottosegretario di Palazzo Chigi con delega alla sicurezza nazionale Marco Minniti (che aveva incontrato a Roma l’allora direttore della Nsa Keith Alexander). «Non risultano compromissioni della sicurezza delle comunicazioni dei vertici del Governo, né delle nostre ambasciate – assicurò nel novembre di quell’anno Letta – gli Usa ci hanno assicurato che i loro organismi informativi non hanno rivolto in via sistematica i propri strumenti di ricerca contro il nostro Paese».
Ebbene, è in quell’aggettivo speso allora da Letta e che qualificava un decennio di spionaggio elettronico Usa – «sistematico» che le due diplomazie provano infatti a trovare una via di uscita. E lo fanno in un gioco di sottili distinguo che deve salvare capra e cavoli, depotenziare politicamente il caso e ricacciarlo nel passato. La nostra Intelligence lascia così filtrare, attraverso fonti qualificate, che «allo stato, i nuovi documenti di WikiLeaks non dimostrerebbero un’attività diretta di ascolto sul Presidente del Consiglio e i membri del Governo e dunque una violazione della nostra sovranità». «Piuttosto, un’attività di “captazione indiretta”. Condotta su leader di altri Paesi, ovvero su funzionari di governo e diplomatici italiani con una proiezione o incarichi all’estero». Insomma, nel 2011, Berlusconi e, come lui, il suo ex consigliere Valentino Valentini, l’allora consigliere per la sicurezza nazionale Bruno Archi, il diplomatico Marco Carnelos e l’allora rappresentante permanente presso la Nato Stefano Stefanini sarebbero finiti nella rete americana della Nsa non perché “target designati” (come era accaduto per la Merkel e almeno tre presidenti Francesi), ma perché vittime “collaterali” di quella gigantesca pesca a strascico che, per oltre un decennio, gli Stati Uniti hanno fatto su scala planetaria.
Washington sembra cogliere l’opportunità e a metà pomeriggio, l’ambasciatore John Phillips si trattiene per circa trenta minuti nell’ufficio del Segretario generale della Farnesina Michele Valensise. Cui consegna un messaggio «rassicurante e distensivo». Che nel rinviare le spiegazioni di merito a consultazioni con il Dipartimento di Stato, ribadisce la «cessazione di qualsiasi attività di ascolto su governi alleati o Paesi amici a partire dal 2014».