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 2016  febbraio 24 Mercoledì calendario

Nello scontro Arabia-Iran, è il Libano il primo paese che rischia di andare in pezzi

«Se scoppia un’altra guerra civile noi libanesi dovremo uscire di casa con un’etichetta appiccicata in fronte: pazzi». Sarkis Naoum è il decano degli analisti politici in Libano. La guerra del 1975-1990 l’ha vissuta dal primo giorno all’ultimo. Ora non si sente di escludere più niente. Perché lo scontro per il dominio in Medio Oriente fra Arabia Saudita e Iran, dopo tre conflitti per procura ancora in corso in Iraq, Siria e Yemen, ha subito un’accelerazione paurosa in Libano. E quando «intervengono le potenze esterne», il più fragile dei Paesi mediorientali va in pezzi.
Dall’Annahar Building, il palazzo del più importante quotidiano libanese, non si notano più le ferite della guerra in città, mezza distrutta negli Anni 80. Se non fosse per il filo spinato, i blocchi di cemento e le garitte dei soldati attorno agli uffici governativi, sembrerebbe un Paese normale. Il Down Town, il Suk sono stati ricostruiti con i soldi dei Paesi del Golfo e le imprese della famiglia Hariri. Il conflitto gira intorno a loro. Gli Hariri garanti degli interessi sunniti, e sauditi, contro gli Hezbollah garanti di quelli sciiti, e iraniani.
Saad Hariri, figlio dell’ex premier Rafik ucciso in un attentato il 14 febbraio 2015, è tornato dopo una lunga assenza a scaldare i suoi, l’Alleanza 14 Marzo. La frase chiave del comizio è stata: «Non diventeremo mai una provincia dell’Iran». Due giorni dopo il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah ha replicato che i combattenti del Partito di Dio resteranno in Siria «per secoli» a difendere gli interessi degli sciiti, e dell’Iran.
Quattro giorni dopo l’Arabia Saudita ha annunciato che sospendeva i tre miliardi di dollari di aiuti promessi per riarmare l’esercito, con gli equipaggiamenti a pezzi e il morale a terra. Lunedì il ministro della giustizia, vicino ai sauditi, si è dimesso e ha fatto pressione sugli altri esponenti del 14 marzo perché facessero altrettanto. E ieri, ancora più inquietante, Riad ha chiesto ai suoi cittadini di lasciare il Libano, mentre gli Emirati hanno proibito i viaggi verso Beirut.
Lo scontro politico è all’ultimo stadio e per gli analisti locali il meglio che ci si possa attendere è la «continuazione della paralisi». Il peggio è che «si passi allo scontro armato». Da quanto è scaduto il mandato di Michel Suleiman, il 25 maggio 2014, il Libano non ha un presidente. Per eleggerlo servono i due terzi del Parlamento e un accordo politico fra i cristiani maroniti, la terza e più importante componente del Paese, a cui spetta per costituzione. Trentasei votazioni sono andate a vuoto. Senza un presidente non ci possono essere nuove elezioni e il governo di Tammam Salam, prorogato, gestisce a stento gli affari correnti.
Servono i voti di Hezbollah che controlla un quarto dei 128 deputati e guida l’Alleanza 8 Marzo anti-saudita. Hezbollah è favorevole ai due principali candidati in campo, il generale Michel Aoun, e il quarantenne Suleiman Frangieh. Dà la colpa alle divisioni fra i cristiani e alle «interferenze di Riad». Per gli avversari continua a far mancare il quorum perché senza un presidente e con un governo moribondo – che non riesce neanche a smaltire i rifiuti e a fornire elettricità 24 ore al giorno – «il suo Stato nelle Stato» prospera.
Hezbollah è meglio armato e motivato dell’esercito. Da Beirut sud al confine con Israele fornisce sicurezza e servizi. Sta vincendo la guerra in Siria a fianco di Bashar al-Assad. E questo ha fatto saltare gli equilibri in Libano e i nervi alla leadership saudita. Anche nel campo cristiano vedono le mosse di Riad come «una vendetta anche contro gli americani che non hanno mantenuto la promessa di cacciare Assad». La guerra ha avuto come conseguenza l’arrivo di 1,5 milioni di profughi, già sufficienti a mandare in crisi una nazione di 4 milioni. L’economia è ferma. Basta una scintilla e salta tutto.