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 2016  febbraio 23 Martedì calendario

Calciatori gay, l’ultimo tabù del football

In principio fu Wilson Oliver. Aveva 20 anni, giocava al Nacional di Montevideo, in Uruguay, era una grande promessa del club campione del mondo nel 1988. Non beveva, non fumava, era un professionista esemplare. Ma la sera frequentava discoteche gay. La voce si sparse e il club lo mandò in serie B, al Tanque Sisley, ufficialmente per farsi le ossa. Quindi un anno al Portuguesa de Maracaibo, in Venezuela, dove il machismo era ancora più forte, poi Guatemala, El Salvador e a 25 anni di fatto Wilson chiude la carriera col Villa Española, in serie B. Il suo orientamento sessuale lo condanna. Sono gli anni in cui in Europa emerge il talento di Justin Fashanu fra Nottingham Forest e Notts County. E nel 1990 l’attaccante, figlio di un avvocato nigeriano, fa coming out, cioè si dichiara gay, primo pro inglese. Ed è la tragedia. Rinnegato dal fratello, dalla sua comunità nera, emigra in Mls negli Usa, finché nel 1998, a soli 37 anni, accusato di stupro di un 17enne (in realtà un rapporto sessuale consenziente) in Maryland, si suicida.
Quattro gatti
Sono passati quasi 17 anni da allora. Molti altri atleti nel mondo sono usciti allo scoperto, per rivendicare i diritti della comunità Lgbt (lesbo, gay, bisessuale, trans). Pochi i calciatori. Si contano sulle dita di una mano. Due americani (a lato l’intervista a Robbie Rogers), uno svedese e un tedesco. Nessun italiano. Anzi, nessun italiano in assoluto fra tutti gli sport, se si eccettua il coming out due anni fa di Nicole Bonamino, 22enne portiere dell’Italia di hockey inline. Da noi non ci sono Navratilova o Louganis, Amaechi o Mauresmo, Gareth Thomas o Anja Paerson. Da noi le istituzioni e chi conta, nel calcio soprattutto, fanno orecchie da mercante. Mica come all’estero.
Aguero e compagnia
In Gran Bretagna per esempio questo febbraio è stato proclamato mese contro l’omofobia nel calcio. Una campagna nata per la prima volta nel 2010 proprio in onore di Justin Fashanu. Questa volta hanno aderito quasi 60 club pro, dal City allo United, dal Chelsea al Villa, dal Wrexham gallese al Tottenham. Lo scorso 14 febbraio sono scesi in campo con le maglie «Football Vs Omophobia» Aguero e Clichy, Fernando e i rivali degli Spurs. «Dobbiamo lavorare per sradicare la discriminazione sessuale, come nella battaglia contro il razzismo», ci ha detto Josep Ribes, fondatore del primo fan club gay e lesbo affiliato al Barcellona dal 2006. In Inghilterra oggi è la norma avere fan club ufficiali Lgbt. Tanto che esiste il GFSN, il Gay Football Supporters’ Network, associazione che riunisce tutti i fan club Lgbt, organizza eventi, tornei e campionati nazionali, e promuove campagne per i diritti della comunità gay e lesbo. Vi aderiscono a migliaia: dai Gay Gooners dell’Arsenal ai Proud Canaries del Norwich, dai Canal Street Blues del City ai fan club di Tottenham, Sunderland e Liverpool. E già dal 2006 ne esiste una versione internazionale: il Queer Football Fan Clubs (QFF), associazione fondata da club gay di Berlino, Stoccarda e Dortmund e di altre 23 società tedesche, oltre a 3 svizzere (Zurigo, Basilea e Young Boys Berna) e una olandese (Ado Den Haag), che hanno cooperato in passato anche con la federcalcio tedesca e la Bundesliga. Così come succede di norma in Inghilterra. Anche la Uefa a volte, timidamente, ha invitato questi fan club gay ai propri convegni contro le discriminazioni. E «Football Vs Omophobia» ha promosso ora anche il primo Football Coaches Network Lgbt, cioè un’associazione per coach gay e lesbo.
Vent’anni fa, un arbitro
Perché anche questi, i tecnici, come gli arbitri, vanno tutelati. Come l’olandese John Blankenstein che nel 1992 agli Europei, alla vigilia di Danimarca-Inghilterra, disse: «Basta con i falsi pudori. Non c’è nulla di strano ad ammettere la mia condizione: lo sa da tempo anche la Federazione olandese che non mi ha mai messo i bastoni tra le ruote». Lui si abituò agli sfottò però pare che a causa della sua omosessualità la Uefa gli sfilò, dopo una prima designazione, la finale di Coppa dei Campioni tra Milan e Barcellona, Atene 1994. E Blankenstein aveva diretto l’anno prima il ritorno della finale di coppa Uefa al Delle Alpi fra Juve e Dortmund.
Adidas e Nike solidali
Che la sensibilità dell’ambiente internazionale stia cambiando lo mostrano certi casi recenti. Dalla Nike che molla il pugile filippino Pacquiao (perché ha definito gli omosessuali «peggio degli animali») all’Adidas, che si sente in dovere di specificare che la diversità di genere non è un handicap, e offre garanzie ai suoi testimonial di fare pure coming out senza conseguenze per gli accordi commerciali di sponsorizzazione. Tasto, questo, in passato (e non solo) molto dolente. In quanto si diceva che tanti atleti non si dichiaravano proprio per la paura di perdere gli sponsor. Anni fa, per esempio, Sports Illustrated in un sondaggio ha rivelato che il 65% del campione dei clienti selezionati sarebbe stato meno propenso ad acquistare un marchio sostenuto da un atleta gay o lesbo. Anche se è ovvio, come da ricerca dell’associazione inglese Stonewall, che il coming out di una personalità famosa incrementerebbe la fiducia in se stessi di molti fan, che riuscirebbero così a rivelare più facilmente ad amici e familiari il proprio orientamento sessuale.
Lacci Arcobaleno
Se all’estero in passato hanno fatto campagna contro le discriminazioni sessuali campioni come Mario Gomez o Santiago Cañizares o l’ex nazionale tedesco Hitzlsperger (gay dichiarato) in Italia l’ultima iniziativa di rilievo anti-omofobia risale a 2 anni fa, quando l’agenzia di scommesse Paddy Power con la Fondazione Cannavò, legata alla Gazzetta, ha organizzato la campagna Rainbow Laces o Lacci Arcobaleno, cui hanno aderito volti noti, da Nainggolan a Moscardelli, da Dessena a Marchisio, e la Federcalcio dell’allora presidente Abete. Ma fra gli uomini di calcio di peso si ricordano solo le parole di Cesare Prandelli, di 4 anni fa; l’allora c.t. dell’Italia disse: «Nel mondo del calcio e dello sport resiste ancora il tabù nei confronti dell’omosessualità, mentre ognuno deve vivere liberamente se stesso, i propri desideri e i propri sentimenti». «In Italia dell’argomento si parla poco, se non in passato per denigrare l’ambiente del calcio femminile», ci dice Damiano Tommasi, presidente dell’Associazione Italiana Calciatori. «Ma come Aic non abbiamo mai avuto segnalazioni da nostri tesserati di discriminazioni sessuali. Anche se sono convinto che ormai nel 2016, l’omosessualità, la si possa vivere con normalità anche nel nostro ambiente. Pur se non è detto che ciò debba spingere per un coming out». Cioè, in sostanza, come rivelano sondaggi anonimi svolti all’estero (l’ultimo, quello di FourFourTwo dell’anno scorso), i gay nel calcio ci sono (l’11% per il magazine britannico). Solo che magari preferiscono restare nell’ombra. February in Inghilterra è sinonimo di lotta all’omofobia. Quando in Italia?