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 2016  febbraio 23 Martedì calendario

Molto dipenderà dallo shale oil

Qualche speculatore ha già capito come cavalcare l’onda: se oggi il petrolio corre, domani ci saranno buone probabilità di guadagnare da una scommessa al ribasso.
Come sanno bene i surfer, a cavalcare qualsiasi onda si corrono dei rischi. Lo stesso vale per quelle del mercato petrolifero, tra i più volatili nelle ultime settimane: ieri era una giornata sì, con rialzi fino al 7% per il Wti, tornato a sfiorare 32 dollari al barile, e intorno al 5% per il Brent, che di nuovo corteggia quota 35 dollari. Oggi ci sono buone probabilità che le correnti tirino nella direzione opposta, trascinando – come spesso accade di questi tempi – anche i listini azionari. Ovviamente non c’è nessuna certezza: meglio lasciare che siano gli speculatori esperti a sfidare le onde. Proprio questa volatilità estrema del mercato, tuttavia, potrebbe essere il preludio di un’inversione di tendenza.
Qualche segnale di cambiamento comincia a vedersi, sia sul fronte dello shale oil americano, sia su quello – giocoforza contrapposto – dell’Opec. Entrambi spavaldi, fino a poco tempo fa, nell’esibire la propria capacità di resistenza, oggi stanno iniziando a cedere, provati da più di un anno e mezzo da incubo, durante cui hanno visto crollare di due terzi i prezzi del petrolio. La speranza che tutto si possa cancellare con un colpo di spugna del resto è morta da tempo. I tagli al personale, agli investimenti, al credito e alle ambizioni stesse delle compagnie petrolifere si faranno sentire a lungo, così come le conseguenze per le casse degli Stati petrolio-dipendenti.
L’Organizzazione degli esportatori di greggio, che nel 2012 aveva registrato introiti recod di oltre 1.200 miliardi di dollari, l’anno scorso ha incassato non più di 500 miliardi e quest’anno, prevede l’Agenzia internazionale dell’energia (Aie), rischia di doversi accontentare di 320 miliardi, se non cambia nulla. È probabilmente per questo che si è arrivati agli accordi di Doha, con cui i sauditi, insieme a russi, venezuelani e qatarini, hanno gettato le basi per un congelamento della produzione. Visto che l’Iran nicchia, al momento sembra la classica montagna che ha partorito un topolino. Ma non è escluso che non si tratti davvero del «primo passo» verso qualche azione più incisiva, come ha suggerito il ministro saudita Ali Al Naimi. Le consultazioni trasversali Opec-non Opec dureranno fino al 1° marzo, ha fatto sapere il russo Alexander Novak nel weekend, sottolineando che Teheran dimostra un atteggiamento «costruttivo».
Sullo schieramento opposto c’è lo shale oil, che sta cedendo davvero: l’Aie, nel rapporto di medio termine diffuso ieri, prevede un calo di 600mila barili al giorno quest’anno e altri 200mila bg nel 2017, quando «finalmente vedremo riallinearsi l’offerta e la domanda di greggio». I petrolieri non devono lasciarsi entusiasmare troppo: «Le enormi scorte accumulate attenueranno il ritmo della ripresa dei prezzi», di modo che il barile potrebbe tornare a quota 80 dollari solo nel 2020. E comunque non appena le quotazioni si saranno riprese lo shale oil ripartirà in quarta, secondo l’agenzia dell’Ocse, che evidentemente non vede ostacoli nemmeno sul fronte dei finanziamenti: i “frackers”, assicura, estrarranno la quantità record di 5 milioni di barili al giorno nel 2021, 770mila bg in più rispetto al 2015.
Sul mercato dobbiamo insomma aspettarci cicli più brevi, su livelli di prezzo più moderati di un tempo, con lo shale oil come nuovo ago della bilancia al posto dell’Opec. È quello che l’Aie descrive come il «nuovo mondo del petrolio», un mondo in cui «chiunque sia in grado di produrre greggio ne vende il più possibile, per qualunque prezzo riesca a spuntare». «Solo pochi anni fa questo liberi-tutti sarebbe stato inimmaginabile – commenta l’Agenzia – ma oggi è la realtà e dobbiamo abituarci. A meno che i produttori Opec, sulla base dei recenti annunci, non cambino la loro strategia di massimizzazione dell’output».