Il Sole 24 Ore, 23 febbraio 2016
Da dove viene e dove può arrivare Boris Johnson
Chi era giornalista a Bruxelles nei primi anni Novanta non può non ricordare il collega Alexander Boris de Pfeffel Johnson, un po’ tedesco e un po’ francese, schegge di Dna turco, in memoria dello zio Ali Kemal, ministro degli interni dell’Impero Ottomano. E molto inglese a suo modo, segnato com’è dalle doti migliori della britishness – senso dell’ironia e analisi eterodossa – ma indifferente alle pruderie moralistiche di una società che indugia nell’ipocrisia. Sangue europeo per uno sfidante scettico, roso dalla passione per la storia di Roma, appresa attraverso la lenta algida di Eton e Oxford. Di Johnson a Bruxelles ricordiamo tutti le eccentriche considerazioni, nelle more del mercato interno, quando l’esigenza di creare standard per prodotti senza frontiere lo fulminò con dubbi e interrogativi – epico fu il discettare sull’euro-preservativo – raccontati sulle colonne del Telegraph di cui era corrispondente. Gusto gigione e piglio guascone, dunque, Sullo sfondo dell’integrazione Ue.
«Sono un europeo...» è pertanto l’avvio, solo in parte inatteso, della lettera che ha svelato l’atto d’accusa del sindaco, utile, comunque, per capire l’anima dello sfidante e i rischi di uno scontro che s’è fatto improvvisamente, incerto. Rivendicando una condizione dettata dalla sua storia – è figlio di un dirigente Cee – e generata da cromosomi meticci, Boris, si colloca in uno spazio nuovo del dibattito su Brexit, quello che gli fa dire «da europeo amo l’Europa, ma non amo l’Unione europea».
Paradossalmente i motivi per i quali Boris non la ama sono gli stessi per i quali Londra la brama. L’eurocondom, dileggiato dal biondo sindaco Tory, è il paradigma di quello che più lui teme: l’appiattimento delle differenze, l’ortodossia delle culture, la nascita, per legge, di un homo europeus capace di fagocitare l’inglese. Il single market è l’immagine plastica di una standardizzazione inevitabile: tutte le asperità sono limate dalla pialla di un’offerta uniforme, scolpita in regole uguali per tutti.
Eppure proprio il mercato unico è quanto resta della membership britannica all’Ue. Ora che il premier David Cameron ha chiamato il suo Paese fuori, anche formalmente, da ogni dinamica di integrazione, il senso ultimo della partecipazione del Regno Unito all’Unione è la libera circolazione di beni e servizi e, un po’ meno, di persone. Londra ha sempre aspirato a un’Europa fatta così e venerdì a Buxelles se l’è guadagnata, ponendo il sigillo su una realtà di fatto. Per questo motivo il “si” a Brexit che ora contrappone Boris Johnson a David Cameron ha motivazioni lontane dalla sfera del realismo politico, essendo, per una buona metà, figlie di una sincera, umorale, allergia all’euro-omologazione. E, per l’altra metà, prodotte del gusto, guascone e gigione, che lo vuole vedere battersi contro il più popolare del reame, David Cameron.
Motivazioni nient’affatto fragili, anzi. Il sapore del sangue ecciterà un popolo di combattenti, pronto ad apprezzare lo scontro leale, senza – rigorosamente senza – esclusione di colpi; l’irruenza istintiva di un biondo condottiero che rivendica l’unicità nazionale oltre i tecnicismi dell’economia degli gnomi di Bruxelles, farà il resto. Lo spettacolo è cominciato.