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 2016  febbraio 23 Martedì calendario

Eco a Parigi. I ricordi di Bernard-Henri Lévy, «modesto contributo alla tomba che per lui comincia a edificare, senza indugio, la sua patria riconoscente: l’Europa»

I ricordi si affollano. L’incontro, trent’anni fa, presso il nostro comune editore Jean-Claude Fasquelle: lo trovo bizzarro e geniale, faceto e malpensante, Zelig dal sapere assoluto, battute di spirito a volontà, inesauribile. 
Un altro incontro, poco prima, più breve, in rue de Bizerte, da Gilles Deleuze, stupito da quel pozzo senza fondo di scienza, da quella riserva quasi infinita di intelligenza: lo interroga come si fa con un campione di giochi televisivi... Va in visibilio per la sua erudizione come davanti a un lottatore da circo, a una donna con la barba... E Gottfried Wilhelm Leibniz, chiede con la sua voce rauca e canzonatoria? E l’odore di benzina che, a Praga, ricorda a Franz Kafka i giorni felici di Parigi? E le influenze comparate di Henrik Ibsen, di Italo Svevo e dell’irlandese James Clarence Mangan sulla nascita della poetica di James Joyce? E il numero di telefono di padre Stanislas Breton? Sa poi veramente a memoria i numeri di tutti gli specialisti parigini di Plotino, di Platone, della filosofia greca in generale? 
O il convegno a Milano, alla fine degli anni Settanta: ci sono Leonardo Sciascia, Alberto Moravia, forse Roland Barthes. Eco non ha ancora fatto il gran passo con Il nome della rosa e quindi non è ancora il grande romanziere popolare – nutritosi di Arsenio Lupin, di Sherlock Holmes e della leggenda di d’Artagnan – che presto diventerà; ma i suoi colleghi più anziani, non saprei dire perché, già lo snobbano un po’: per la sua facondia? Per la sua libertà di comportamento e di tono? Per il suo modo di brindare, durante una cena, all’«arte del falso», e di declamare, ma sottoponendole a una trasformazione sottile, regolata, e per tutti incomprensibile, alcune pagine tratte dalla novella di Nerval, Sylvie ? 
Lo rivedo con il mio amico Valerio Riva, personaggio enigmatico e meraviglioso che Eco sembra aver conosciuto bene ai tempi del Gruppo 63 e della sua giovinezza avanguardista: Valerio è uno scrittore che all’epoca dirige le pagine letterarie de l’Espresso; ma Umberto, per tutta la durata del pranzo, cerca di fargli confessare, maliziosamente, di essere o un agente russo o un cospiratore castrista o il depositario degli ultimi segreti di Giangiacomo Feltrinelli, il miliardario rosso che morì nel tentativo di far saltare in aria un palo elettrico vicino a Milano. 
Poco prima, alla metà degli anni Settanta, lo trovo nell’anfiteatro dell’università, a Roma, davanti a un’aula gremita, surriscaldata da quelli che allora erano chiamati gli «autonomi»: all’epoca, Eco insegna a Bologna; ma ora è lì, come me, invitato dal quotidiano di estrema sinistra «Lotta continua», per tentare di spiegare a una gioventù alla deriva che la «lotta armata» è una mostruosità, una ripetizione del fascismo, una follia. Fuori, uno studente ha scritto su un muro: «Eco, Lévy, vi spareremo una pallottola in bocca». 
Più tardi, in rue des Saints Pères, a Parigi, una conversazione con Lucien Bodard che egli ha raccomandato a Jean-Jacques Annaud per il film tratto da Il nome della rosa: sembravano due albatros ugualmente impigliati nelle proprie ali, ma uno ha l’aria scontenta mentre l’altro, Umberto, ci stordisce con le sue considerazioni sui greci antichi che avrebbero fabbricato l’equivalente del cianuro a partire da noccioli di pesca. 
Un’altra conversazione, all’Eliseo, con François Mitterrand che gli ha appena affidato, insieme con Elie Wiesel, la responsabilità di una Accademia mondiale delle culture: quel giorno, egli spiega che ha perso la fede leggendo san Tommaso, che Napoleone è morto avvelenato per la carta da parati della camera di Longwood, che nulla è più simile a uno scrittore che non si mette in mostra di uno scrittore che si mostra troppo, che ormai legge solo dizionari e che, pur non credendo né alle «accademie» né al «mondo» né, in fondo, alla «cultura», accetta volentieri di associarsi al progetto. 
Più tardi, sempre a Parigi, ricordo un incontro di scrittori, da me organizzato al Trocadéro, con il canale televisivo Arte, dove Eco pronuncia il discorso di chiusura: l’Europa? Sì, certo, l’Europa; cioè western spaghetti, Sofocle, il gusto della traduzione, la scrittura nella nebbia, l’arte dell’amore e quella della frase interminabile. 
Siamo a New York, non gli resta più molto tempo da vivere, aspettiamo nella green room di Charlie Rose che ci deve intervistare uno dopo l’altro: lo trovo appesantito, un po’ triste, ma appena l’occhio della telecamera lo guarda, ecco che ritrova la sua verve e spiega, con aria falsamente contrita, che l’Italia di Silvio Berlusconi è diventata, per la seconda volta, il laboratorio politico del mondo. Presto, Donald Trump... 
E poi, vicino a Milano, la sua biblioteca: la visita al grande scrittore diventava inevitabilmente, con lui, la visita alla grande biblioteca: labirinto; rizoma; Cafarnao ispirata e dove egli si orientava ad occhi chiusi, e la vera vita che, come giusto, era nei libri. 
Scrivo questi ricordi così come vengono, senza ordine, modesto contributo alla tomba che per lui comincia a edificare, senza indugio, la sua patria riconoscente: l’Europa.