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 2016  febbraio 23 Martedì calendario

Totti prenda esempio da Ratzinger. A proposito di uscite di scena

Giovanni Orsina
Quand’è che un leader con un grande passato diventa dannoso alla causa, ed è bene che si faccia da parte? La vicenda di Francesco Totti ha un valore in sé, e risvolti «sentimentali» che difficilmente possono lasciare indifferenti anche al di fuori della Capitale. E tanto più all’interno del Grande Raccordo Anulare – e figurarsi per quanti soffrono di antica fede giallorossa, come chi scrive. Questa vicenda, tuttavia, possiamo pure considerarla emblematica d’una questione più ampia e seria, che non solo ha una lunga storia, ma è destinata a porsi con sempre maggiore forza nel prossimo futuro.
Partiamo da un assioma: fatte salve rarissime eccezioni, chi occupa una posizione di leadership non la molla per nessun motivo al mondo. Possiamo immaginare, se vogliamo cedere al grillino che è in noi, che a contare siano i privilegi e le risorse materiali di cui gode chi comanda. Con ogni probabilità, però, c’è qualcosa di più, e di ben più profondo: l’eccitazione, la vitalità, il senso di sé che l’essere leader genera. Emozioni delle quali si può fare a meno se non le si conosce, ma alle quali è difficilissimo rinunciare se le si è provate – anche perché, esauritesi quelle, si teme di cadere nel vuoto.
Corollario dell’assioma: il leader troverà sempre dei motivi per i quali è nell’interesse di tutti che lui (o lei) non se ne vada. La principale fra le ragioni che il leader adduce è l’impossibilità per il gruppo di fare a meno del suo capo, poiché non si è ancora presentato un successore all’altezza. Un argomento capzioso, in genere: è la sopravvivenza del leader che impedisce ai successori di emergere. Di più: spesso è proprio il leader che si affretta a strangolare i possibili eredi nella culla.
Conseguenza dell’assioma: non può spettare al leader il compito di dichiarare finita la propria leadership. È l’istituzione entro la quale si esercita la leadership che, al momento giusto, deve mostrarsi capace di defenestrare il leader. Spietatamente, senza cedere ai sentimentalismi e senza farsi ostacolare dalla gratitudine. Come la Juventus ha fatto con Del Piero. Proprio dal modo differente in cui la Juve ha gestito la fine del Del Piero e la Roma sta gestendo quella di Totti si misura tutta la distanza fra un’istituzione forte e una fragile. Distanza che (ma da romanista quanto mi secca doverlo ammettere, e su questo giornale poi!) non può fare a meno di riflettersi sul campo.
Poiché il problema del rapporto fra istituzione e leader si pone a ogni livello in termini piuttosto simili, possiamo provare a passare dal terreno di gioco a quello (più serio?) della politica. Ci sono istituzioni che hanno risolto la questione fissando al leader una scadenza temporale improrogabile, e pazienza se va sprecato un talento non ancora esaurito: la presidenza degli Stati Uniti. Altre istituzioni prevedono il ricambio per il tramite di congiure di partito: fu così che nel 1990 Margaret Thatcher perse la premiership. In altri casi ancora, rarissimi, è stato lo stesso leader a costruire le istituzioni delle quali, infine, sarebbe restato vittima: Charles de Gaulle nel 1969. Infine, ci sono istituzioni create dal leader, ma mai cresciute a sufficienza da poter fare a meno di lui – figuriamoci sbarazzarsene. Esempio illustre, la Forza Italia di Silvio Berlusconi.
Nel prossimo futuro – visto che, per tante ragioni, le istituzioni stanno diventando sempre più fragili e il peso della leadership individuale sempre maggiore -, è lecito immaginare che il problema del ricambio dei leader sia destinato ad aggravarsi. Basti pensare al nostro Paese, perennemente oscillante fra i due eccessi della gerontocrazia e della rottamazione. Che il rapporto fra istituzioni e leader stia cambiando a vantaggio del secondo, del resto, ce lo ha dimostrato tre anni fa il capo della più solida e antica fra le organizzazioni: a giudizio di Benedetto XVI, evidentemente, nemmeno la Chiesa cattolica poteva più fare a meno d’un leader capace di sopportare la pressione dei tempi. Allo stesso tempo, tuttavia, papa Ratzinger ci ha anche mostrato che l’assioma dal quale siamo partiti conosce delle eccezioni. E certo, pure soltanto accennare a un paragone fra Benedetto e Francesco (Totti, s’intende), o anche Silvio, è cosa che può esser fatta soltanto per gioco. Ciò nondimeno, le dimissioni di Ratzinger rimarranno per sempre, a ogni livello, l’esempio più straordinario di come un leader possa, con l’uscita di scena, portare la propria leadership al culmine, e non all’esaurimento.