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 2016  febbraio 23 Martedì calendario

A Las Vegas, tra ori, marmi e palmizi, va in scena il culto populista di Trump

Il logo Trump splende al sole come fossero lingotti d’oro. Il cielo è azzurro terso, la brezza fa ondeggiare i palmizi. Sullo sfondo, una catena di montagne maestose. Non è l’inizio di uno spot televisivo: è la Trump Tower di Las Vegas, il grattacielo-hotel di lusso dove stasera “The Donald” verrà al suo quartier generale del Nevada a seguire i risultati del “caucus” repubblicano. È un piccolo test in attesa del Supermartedì (primo marzo) dove si vota in 11 Stati e Trump è favorito. Ma è qui a Las Vegas che va in scena il New American Dream nella sua versione più surreale: il culto populista di massa che ha proiettato The Donald ai vertici della gara tra repubblicani. La Trump Tower che svetta al confine del deserto, in un’eterna vacanza estiva, è uno sfavillare di ori, lampadari a gocce e cristalli, marmi italiani, piscina con vista sulla capitale del divertimento permanente: dalla lounge dove le ragazze in bikini prendono il sole si vede il resto di Vegas, un mondo che Trump trasforma in una metafora della sua America. Las Vegas non è più solo capitale del gioco d’azzardo, si è inventata molte altre vocazioni: turismo di massa 365 giorni all’anno per famiglie di ogni ceto; entertainment a ciclo continuo con popstar come Céline Dion e Britney Spears che danno concerti in permanenza; sei spettacoli fissi del Cirque du Soleil; l’illusionista David Copperfield anche lui ha stabilito qui dimora fissa. Sono sorti nuovi mega- complessi all’insegna delle “repliche”. C’è la finta Venezia con campanile di San Marco, la finta Luxor con hotel-piramide da 5.000 stanze; una Parigi, una copia di Manhattan, una replica di Hollywood gestita da Mgm. Ciascuna di queste città immaginarie è al tempo stesso hotel, casinò, multisala teatrale, shopping mall. L’intera Vegas si può percorrere passeggiando per 20 km senza mai uscire dai centri commerciali: i collegamenti sono degli shopping mall giganteschi con passeggiate sopraelevate o sotterranee, aria condizionata che neutralizza le stagioni, illuminazione sfavillante che cancella la distinzione tra giorno e notte. Capitale ideale per Trump-businessman, l’impresario che mescola i generi. Nel suo hotel il gift shop si confonde con un centro di propaganda elettorale, vende berretti con lo slogan “Make America Great Again” insieme con il vino delle cantine Trump. The Donald venne per la prima volta qui in veste di candidato il 7 ottobre scorso e attirò più turisti che residenti- elettori, in un vortice spettacolare dove scompariva la differenza tra lui, David Copperfield, Céline Dion. Scelse di parlare nel teatro da 1.600 posti dove il Cirque du Soleil replica tutte le sere “Mystère”, nell’hotel casinò Treasure Island del suo socio d’affari Phil Ruffin. Dentro l’immenso salone delle slot-machine una statua riassume questo mondo, i suoi sogni da realtà virtuale: raffigura un’anziana coppia che ha appena vinto al casinò, con tasche e valigia traboccanti banconote verdi. È l’American Dream incarnato da Trump: non ha bisogno di programmi, è lui la garanzia che i nostri sogni saranno realtà. Meglio di Disneyland, questa città trasformata in un parco giochi per adulti, al centro di una colossale messa in scena, è lo specchio di quello che The Donald racconta agli americani, una favola piena di effetti speciali. Per lui le leggi della politica sono sospese. Ha vinto la primaria in South Carolina al termine di una settimana folle, aveva accumulato gaffe che avrebbero distrutto qualsiasi altro candidato: lite col Papa, elogi a Putin, contraddizioni su temi scottanti come l’aborto o la riforma sanitaria. Il popolo che lo adora non guarda queste sottigliezze. Vuole un’America che torni ad essere grande, molto bianca, più forte della Cina, protezionista, liberata dalle lobby del denaro e dai professionisti della politica. In cerca di un’identità e di un ruolo che le stanno sfuggendo, le trova in questa messinscena: una città costruita nel deserto, monumento all’in-sostenibilità ambientale, bolla speculativa più volte sgonfiata dai crac immobiliari. E un’industria del turismo con show-business che si regge sul lavoro sottopagato di un esercito d’immigrati messicani.